Questo romanzo è un’ulteriore prova del fatto che identificare Nabokov con “lo scrittore di Lolita” -epiteto con il quale l’autore è perlopiù noto al vasto pubblico – costituisce una ingiusta e riduttiva semplificazione. Di grande valore sono infatti le opere in lingua russa, tutte scritte negli anni trascorsi da Nabokov in Europa dopo essere emigrato dalla Russia e prima di trasferirsi in America e diventare un autore in lingua inglese. La Gloria si inserisce perfettamente nel novero di queste ultime opere, a cui è legato da molteplici caratteristiche comuni. Come in altri romanzi in lingua russa dell’autore infatti il protagonista, Martin Eldeweiss, è -proprio come Nabokov del resto- un giovane emigrato fuggito dalla Russia ancora bambino e cresciuto spostandosi per l’Europa, che fa da sfondo alla narrazione: come Martin il lettore si muove nella placida Cambridge, luogo di studio, di nuove amicizie e del punting sul fiume; nella brulicante Berlino dei primi anni ’20, in cui molti emigrati russi arrivarono in massa per sfuggire ai bolscevichi e cercare di costruirsi una nuova vita; nelle montagne della Svizzera, luogo nativo del padre di Martin, e nell’anonima fattoria del sud della Francia in cui il giovane lavora per qualche tempo come bracciante. Lungo le pagine del romanzo Martin cresce e il lettore può seguire diversi anni della sua vita, i suoi trasferimenti nell’infanzia con la madre e successivamente quelli in solitaria, nati dal bisogno di emanciparsi dai legami familiari e motivati anche dal desiderio di inseguire l’amore. Fino ad arrivare al suo tentativo finale di tornare dove tutto, cronologicamente ed essenzialmente, aveva avuto inizio: la Russia. Potrebbe essere questa l’impresa valorosa a cui accenna il titolo originale –Podvig, che in russo ha proprio questo significato. Il collegamento è però meno evidente nella traduzione italiana, in cui il titolo perde di concretezza e, pur restando all’interno dello stesso campo semantico, è più difficile da afferrare.
La terra natale di Martin rimane visibile in filigrana in tutto il romanzo, evocata dai ricordi d’infanzia del protagonista in anni prerivoluzionari: echi che ci appaiono spesso ben più tangibili e reali della nuova vita da emigrato in Occidente. Tutto traspare attraverso la lente della memoria e la Russia, a parole solo evocata, è in realtà molto più presente che qualsiasi altro luogo; essa si fa infatti sentire continuamente non solo grazie ai ricordi del giovane Martin, ma anche attraverso allusioni esplicite o velati riferimenti, proprio come accade anche negli altri romanzi russi di Nabokov, da Maria a Il Dono -quest’ultimo edito ancora da Adelphi con traduzione dal russo di Serena Vitale.
Innumerevoli sono i riferimenti ai classici della letteratura russa, di cui Nabokov era un raffinato conoscitore –ricordiamoci che trasferitosi negli Stati Uniti insegnò Letteratura Russa a Wellesley negli anni ‘40- e che costituiscono le tante piccole tessere della nostalgia che egli provava per la cultura e lo spirito della sua terra natale, più che per luoghi e oggetti tangibili. A questo proposito è interessante citare l’episodio del “duello” tra Martin e l’amico Darwin su un prato di Cambridge: immediatamente si evocano così i passi di puškiniana e lermontoviana memoria, come se il giovane fosse un novello Onegin o Pečorin coinvolto però in un combattimento dall’esito molto meno tragico.
Nonostante la moltitudine di riferimenti storici e di analogie tra la vita di Martin e quella di Nabokov La Gloria non è comunque un romanzo prettamente autobiografico; l’autore utilizza sicuramente materiale tratto dalla propria esperienza personale ma l’autobiografismo risulta solo fittizio, in quanto nessuno dei personaggi costituisce un vero autoritratto. Le sue opere sono come un perfetto gioco di reminiscenze, citazioni e riferimenti: in Nabokov la raffinatezza e la complessità della forma artistica esaltano gli artifici letterari invece di nasconderli, come già notava nel 1937 Chodasevič -anch’egli emigrato russo in Europa, poeta e critico sulle riviste d’emigrazione.
Inoltre va sottolineato che un ulteriore elemento unisce questo romanzo al resto della produzione russa di Nabokov: la traduzione in italiano è stata realizzata attraverso la mediazione di una versione inglese. Fenomeno in realtà non affatto raro nella letteratura russa (altrettanto comuni sono infatti traduzioni a partire da versioni francesi o tedesche), ma con Nabokov esso acquista una particolare rilevanza grazie al fatto che i suoi romanzi in lingua russa furono tradotti in inglese dal figlio Dmitrij e rivedute dall’autore stesso, che era praticamente bilingue fin dall’infanzia. Così è accaduto a quest’opera, pubblicata per la prima volta in originale nel 1932 sulla rivista emigrée russa “Sovremennje Zapiski” a Parigi e successivamente, nel 1971, negli Stati Uniti con il titolo di Glory, a motivare la scelta del titolo per l’edizione italiana.
Franca Pece, che ha realizzato questa traduzione appena pubblicata da Adelphi, pur non avendo potuto fare riferimento alla versione dell’opera in lingua originale, ha però potuto quindi contare in questo caso su una “fonte intermedia” dotata di una certa autorevolezza, in quanto riveduta e corretta dall’autore stesso. Prima della Pece era stato Ettore Capriolo a cimentarsi con la traduzione di questo romanzo (così come di Maria e di Re, donna, fante) nel 1972 per la Mondadori, sempre basandosi sul testo inglese.
Questa nuova edizione permette di riportare all’attenzione del pubblico un testo forse poco noto di un autore fondamentale, che ha saputo con le proprie opere rendere testimonianza di un periodo cruciale per la storia europea e incantare generazioni di lettori con la raffinatezza della propria lingua, così grande da rimanere pur visibile anche nel “tradimento” della traduzione.