Appunti mantovani: Festivaletteratura 2017

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Essere a Mantova per Festivaletteratura è grandioso, stancante e sfibrante perché sono tanti gli appuntamenti da seguire e gli scrittori da rincorrere. Una fatica che però è anche una rara occasione e una grande opportunità per due motivi. Il primo, come ci fa notare Elisabetta Bucciarelli, è che Festivaletteratura ci consente di entrare in luoghi inaccessibili e suggestivi. Un passepartou per vedere un volto di Mantova che non si concede ai più e non sempre. Così luoghi d’arte e di vita quotidiana, musei e antichi palazzi, si prestano a palcoscenico per le pièce dei narratori che per cinque giorni popolano la città con le loro storie e i loro personaggi. Un’occasione, ad esempio, in cui una moderna sala di tribunale può ospitare un processo alla storia di due streghe, in cui due archivisti si presentano davanti al giudice-scrittore per rievocare fatti e testimonianze passate aspettando un secondo grado di giudizio a distanza di secoli. E oltre ad essere una pratica chiave è anche una buona lente, utile per poter spiare con disinvoltura e bontà nella vita e nella mente degli scrittori. Un’occasione da prendere al volo, per poter ascoltare e osservare gli autori parlare anche del loro mestiere, e di come materialmente nasce e cresce un’opera: non è sempre facile, ne da comprendere ne ancora meno da spiegare, per un autore, come si diventa scrittori. Eppure qualcuno ci è riuscito, con semplicità e onestà, raccontando la propria storia e lasciando all’uditore la possibilità di mettere insieme un puzzle.

Federico Taddia e Donatella Di Pietrantonio     per  ‘Il libro che ho riletto’

Quest’anno a Mantova si è deciso di replicare l’appuntamento Un libro che ho riletto, un dialogo tra il giornalista Federico Taddia e gli autori che in poco più di mezz’ora raccontano un libro che è stato riscoperto con nuovi perché e in nuovi viaggi. A inaugurare gli incontri quest’anno è stata Donatella Di Pietrantonio, che nella corte di palazzo Castiglioni ha parlato della Trilogia di K. dell’autrice ungherese -ma scrittrice in francese- Agota Kristof. Un’affinità, rivela la fresca vincitrice del Campiello, nata da una condivisa difficoltà, uno scoglio che entrambe hanno dovuto superare nel loro percorso artistico. Si tratta della lingua. Contestualizziamo: Agota Kristof fuggì dall’Ungheria come un esule, arrivando in Francia dove si stabilì e dove iniziò a imparare il francese, la sua lingua letteraria. L’autrice stessa ci racconta di come iniziò a scrivere in una lingua che non era la sua, descrivendo la creazione dei suoi primi racconti: con il dizionario sul tavolo, spiando i quaderni di scuola del figlio. Ne nacque una scrittura decisa e tagliente, espressione non solo di una ricerca ma di una difficoltà. E in questo esilio linguistico si è ritrovata anche Donatella Di Pietrantonio che, essendo di madre lingua dialetto abruzzese, apprese l’italiano a scuola da bambina ma, come ha confessato, ne nacque uno stile elaborato, ricco e sfarzoso. La rilettura, da adulta, della Kristof l’ha aiutata molto nel suo percorso di scrittrice, e si vede: è come se la Kristof le avesse suggerito di lasciare una lingua artificiale per riprendere la lingua autentica, originale e naturale che tanto emerge nel suo ultimo lavoro L’Arminuta. Le ha insegnato inoltre, continua Donatella Di Pietrantonio, a scrivere senza riguardi, e che nella scrittura si deve scendere sempre più in profondità come se fosse un’infinita analisi discendente.

Michele Mari e Francesca Scotti

Sentiamo così come sia imprescindibile, nella scrittura, la lettura: prima di tutto grandi lettori, sembra essere questo il segreto. Lo ha giustamente ribadito Terasa Ciabatti: “la scrittura è un grande e instancabile lavoro di lettura”. Prima di poter scrivere le nostre ‘leggende’, per rubare la metafora a Michele Mari, occorre essere sensibile all’ascolto delle leggende altre e altrui. Come ci ha raccontato nell’incontro Con la memoria combatto i mostri per lui la scrittura, e l’arte, è un potente mezzo per combattere i fantasmi che ci assillano e ci tormentano. E’ sopravvivenza, unico strumento con cui lo scrittore-demiurgo riesce a vivere, e lo dimostra bene nel suo Leggenda privata. Quello di cui Michele Mari parla è un bisogno profondo, viscerale quasi ancestrale: scrivere di se è una battaglia che non ammette quartiere, un processo inquisitorio dal quale, una volta iniziato, non ci si può sottrarre. Soprattutto quando si è davanti al mostro-giudice più grande di tutti: la letteratura. E tuttavia egli precisa categoricamente: “la scrittura non è terapeutica”, perché dai mostri non si guarisce. Si sta bene, si vive, scrivendo, ma non appena il libro è terminato e gli viene strappato dalle mani dall’editor allora i fantasmi tornano all’attacco. E si deve ricominciare, per accontentare i demoni che sono implacabili.


E’ un’operazione complessa, non meccanica ma naturale, quella che nasce e si alimenta nei giorni del festival. Perché un contatto così stretto con autori ed editori rischia di essere sfibrante, e per un motivo anche più subdolo se ci si ferma un secondo a rifletterci. La letteratura, tutta, è mistificazione, in maniera più o meno evidente. In un buon libro è necessario un equilibrio tra la fiction e l’ego, ma i fantasmi non sempre sono d’accordo e se lo scrittore non è attento rischiano di diventare prepotenti. Ed è negli incontri col pubblico che un autore rischia di più, perché non è più al sicuro nella sua fortezza letteraria, ma su un palco. Così non è raro in queste occasioni intuire cose che gli autori non vogliono farci capire quando scrivono. E questo gioco di smascheramento, elegante o no, lascia al lettore spettatore ancora più curiosità ed empatia verso il mondo della letteratura, della scrittura e dei libri.

 

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