Ingegneri di anime: progettare canali per costruire uomini nuovi

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La produzione di anime umane è importante. E per questo brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime”.

Si dice che queste siano state tra le parole pronunciate da Josif Stalin la sera del 26 ottobre 1932 davanti ad alcune decine di scrittori sovietici radunati a casa di Maksim Gor’kij.
Siamo in URSS, agli albori dei turbolenti anni Trenta: un decennio iniziato sotto il segno di un utopico piano quinquennale e poi destinato a finire con il terrore delle purghe e l’inizio di una nuova disastrosa guerra.
Dopo essersi assestato politicamente e -più o meno- economicamente, questo nuovo Stato proseguiva nella creazione di un ordine nuovo che desse forma a tutti gli aspetti della vita dei suoi abitanti: per costruire la strada verso il comunismo occorreva prima di tutto preoccuparsi di forgiare “uomini nuovi”, non solo attraverso una disciplina militare e un minuzioso controllo poliziesco, ma partendo prima di tutto dalla letteratura.

La creazione della società sovietica attraverso il canone (letterario e non solo) del cosiddetto “realismo socialista” è uno dei due filoni narrativi che si intrecciano in Ingegneri di anime, ultimo romanzo del belga Frank Westerman, pubblicato in Italia da Iperborea.
La forgiatura di anime voluta da Stalin per il popolo sovietico viene raccontata attraverso le storie di alcuni suoi protagonisti: innanzitutto Maksim Gor’kij, uno dei padri del realismo socialista e, a suo modo, figura ricca di sfaccettature e contraddizioni, lontano dagli uomini monoliticamente semplici e tutti d’un pezzo che il modello della corrente letteraria da lui creata voleva mostrare come unica opzione perseguibile.
La scrittura di Westerman ripercorre prima i suoi anni di vita in Italia – lontano osservatore e critico di ciò che stava avvenendo nel suo Paese – fino a arrivare, in seguito, al ritorno in Patria per volere dello stesso Stalin, con il compito di mostrare agli scrittori come forgiare uomini nuovi.

Lo accompagnano nel racconto di Westermann altri importanti nomi, come Andrej Platonov e Boris Pil’njak – altri grandi scrittori fagocitati loro malgrado dalla ruota che inesorabile avanzava dal Cremlino e che non risparmiava chiunque deviasse anche minimamente dalle direttive imposte. È attraverso le loro vicende che lo scrittore belga ripercorre gli anni che portarono all’instaurarsi di questo canone unico all’interno della letteratura sovietica, raccontandone le vicende personali e artistiche.

Ricorrente nel testo è ciò che negli anni accadde a Peredelkino, villaggio a una ventina di chilometri da Mosca in cui il governo sovietico aveva fatto costruire dacie destinate ad alcuni scrittori privilegiati. Il sospetto che l’intenzione fosse non tanto quella di mostrare loro riconoscenza per il lavoro svolto, quanto piuttosto quella di obbligarli a trasferirvisi per tenerli più facilmente sotto controllo, è più che fondato. Non era raro, infatti, vedere arrivare improvvisamente auto nere che sbrigativamente prelevavamo lo scrittore di turno che non si era mostrato sufficientemente solerte nella costruzione della società socialista attraverso le sue opere; inutile dire che nessuno di loro è mai più tornato.

Il libro evoca dunque fin dal titolo ciò che per molti decenni della storia dell’Unione Sovietica gli scrittori furono tenuti a essere – almeno, se volevano vivere di scrittura ed essere nelle condizioni di farlo apertamente: costruttori di anime umane, forgiatori di uomini nuovi attraverso l’arte.

Il riferimento all’ingegneria rimanda però anche alla disciplina dell’ingegneria in senso letterale, altrettanto presente nelle pagine attraverso i continui riferimenti ai numerosi progetti idraulici, meccanici e agrari voluti da Stalin. Gli anni Trenta non furono infatti solo anni di “ingegneri di anime”, ma anche di ingegneri nel senso primo della parola, chiamati a progettare e portare avanti le grandiose opere con cui si intendeva deviare fiumi, congiungere mari e irrigare i deserti.

Opere massive e utopistiche, che prevedevano non solo uno sfoggio di competenza e potenza ingegneristiche, ma una vera e propria modifica della natura e del territorio, con costi ambientali e umani altissimi. Il Belomorkanal, per esempio, con cui Stalin voleva congiungere il Mar Bianco al Baltico, o le industrie di estrazione nel golfo di Kara Bugaz, che finirono per modificare non solo la conformazione del Mar Caspio ma per rovinare interi ecosistemi, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Belomorkanal
Golfo di Kara Bogaz

Proprio alle vicende del golfo di Kara Bugaz (che attualmente si trova in Turkmenistan) è dedicato il secondo filone del libro, ambientato ai giorni nostri. Il resoconto delle assidue ricerche compiute dall’autore per ricostruire la vicenda di questo angolo di URSS, seguendo le tracce di un altro grande scrittore che lo ha preceduto settant’anni prima: Konstantin Georgievič Paustovskij(poi candidato la Nobel per la Letteratura nel 1965).

Il libro di Westerman è intriso di tecnica, di dati, di progetti vincenti e fallimentari, riuscendo comunque a conservare la capacità di affascinare profondamente anche chi a questa disciplina è del tutto estraneo. Chi avrebbe mai pensato che leggere delle vicende del canale Volga-Don sarebbe potuto essere così interessante? E forse è proprio questa la lezione più importante che ci si porta a casa dalla lettura di Westerman: la vecchia storia dell’antagonismo tra discipline umanistiche e discipline scientifiche (per cui chi è appassionato di letteratura sovietica dovrebbe annoiarsi terribilmente a leggere di canali e altre opere idrauliche) è ormai acqua passata. L’unico modo per capire davvero qualcosa è indagarlo da tutti i punti di vista possibili, facendo concorrere e cooperare scienze e ambiti diversi, in grado di dare insieme tanti tasselli diversi per avere infine un unico mosaico.

Così, ci insegna Westerman, è necessario fare anche con tutto ciò che riguarda la storia dell’URSS: un mosaico di tessere poliedriche e cangianti, che ancora si sa fatica a comprendere completamente.

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