Futuri di seconda mano: l’antologia distopica di Love Death + Robots

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Ci si trova perplessi fino alla delusione, quando l’agognato conta-percentuale della sezione download di Netflix ci informa che il 100% di Love Death + Robots, nuova serie disponibile sulla piattaforma di streamingonline più in voga del momento, è ora disponibile offline sul nostro dispositivo portatile. Dico che ci si trova spiazzati: il primo episodio è lungo solo 17 minuti, e, dei restanti 17, il più corto arriva a toccare il record negativo di sei minuti. E noi che avevamo in programma di anestetizzarci per almeno quelle doverose 10 orette.

Superato questo momento di shock ci avviamo comunque, con meno entusiasmo di prima, alla visione del prodotto. Nel mentre abbiamo anche scoperto – io non avevo questa recensione da leggere prima – che tutte le storie autoconclusive dei 18 episodi sono, almeno in parte, “cartoni animati”; e la cosa ci ha abbassato ulteriormente il morale. La prima puntata, invece, è una rivelazione: succede qualcosa, mentre si guardaLove Death + Robots; ci si sente scuotere tutte le budella. Ma facciamo un passo indietro.

Love Death + Robotsè la nuova e apprezzatissima produzione che David Fincher ha firmato sotto Netflix. Disponibile online dallo scorso 15 marzo, la serie è totalmente animata, e, come suggerisce il nome, i temi trattati nel corso dei 18 episodi che la compongono sono legati ai sentimenti, ai legami, ma soprattutto alle speculazioni su venturi e possibili futuri distopici in cui la razza umana vive in questo o in quel rapporto con le macchine, divenute più o meno senzienti. La prospettiva è puramente distopica: e da qui deriva la componente di morte (“death”) contenuta nel macrotitolo, ma qui mi taccio per non scrivervi irrimediabili spoiler. La serie viene dunque a comporsi di tanti cortometraggi, ognuno di essi girato da un regista diverso e animato da uno studio differente, tra i quali possiamo ricordare Blur Studio, partner Netflix nell’operazione e collaboratore di Cameron per Avatar; Blow Studio, Pinkman TV, Passion Animation Studios, e Sony Pictures Imageworks. Le vicende rappresentate non sono inoltre mai frutto di sceneggiature originali, essendo bensì l’adattamento di preesistenti racconti di vari autori (per gli appassionati di narrativa breve consiglio di segnarsi in particolare il nome di John Scalzi e Alastair Reynolds, creatori di alcuni degli episodi più brillanti). 

Ulteriore particolarità della serie è l’essere stata pensata come antologia del genere nel quale si situa, e questo sia nei temi trattati che nella grafica – tra il postmoderno e lo steam/cyberpunk– che li sostiene. Vale a dire, se vi sembra di rivedere “cose” che avete già visto, o disegni che vi tornano familiari non è stato un banale errore di dappocaggine della squadra creativa, bensì uno studiato calcolo.

Love Death + Robots scuote completamente lo spettatore. E come potrebbe non essere quando a ogni fotogramma si viene catapultati nel mondo della propria infanzia? Finalmente anche i nati classe ’95 (lo dico perché è la mia) potranno dire di riconoscere i riferimenti palesi, o nascosti, nel prodotto audiovisivo che hanno davanti. Inaspettatamente ciò non ti fa sentire vecchio, ma piuttosto ti lascia sulla punta della lingua uno strano pizzicore simile all’onnipotenza. E tanto basterebbe per proclamare la serie un capolavoro, paragonabile per qualità all’ottimo lavoro svolto recentemente dai fratelli Coen ne La ballata di Buster Scruggs.

Però ci sono altre motivazioni che ci spingono a gridare di felicità, come matti, davanti al nostro computer, e una di queste è proprio quanto a primo impatto ci aveva sfavorevolmente impressionato, dunque la durata a misura di respiro delle narrazioni. Ci sono film – ma anche libri; e sfortunatamente, persino oratori – che si dilungano eccessivamente: esauriscono il proprio messaggio troppo presto rispetto alla misura formale che si sono imposti, e, una volta che questo accade, “tutto il resto è noia”. D’altro canto, il pericolo di un racconto lanciato in picchiata, a velocità massima, è quello di sfracellarsi rovinosamente al suolo. Qui invece accade il miracolo: è proprio perché scommettono con solo le massime puntate che gli episodi di Love Death + Robots si levano alti nel cielo, venendo confezionati uno a uno con amore e precisione maniacali. Tutte le squadre coinvolte hanno lavorato in modo ammirevole, e la qualità visiva del prodotto è già di per sé una gioia. Allora i cartoni animati non sono solo per bambini. Ma perché, in soldoni, queste storie risultano tanto vincenti?

Se ci mettessimo a pensare alle caratteristiche richieste a un cortometraggio per essere efficace forse la principale sarebbe la necessità, nella trama, dell’inserimento di un elemento così alieno da poter sconvolgere durevolmente tutto il sistema. Qualcosa che non sia ordinario e che possa apparire, sotto certi punti di vista, paradossalmente esagerato. Non solo: magari vorremmo che ci fosse una certa componente, in quel breve lasso di tempo, che ci stupisse per la sua sagacia, ironia, o profondità di indagine psicologica. Vorremmo affezionarci ai personaggi, e magari, perché no, ricavare dalle loro storie anche delle preziose lezioni di vita.

Queste le virtù principali di una forma narrativa che, non presentandole, correrebbe il rischio di risultare incomprensibile o, peggio ancora, inconcludente. Il cortometraggio scorre infatti al ritmo della nostra vita. Accade come un evento, o una fortunata coincidenza nella routine della quotidianità. Compare, dice la sua, già sfiorisce, obbligando l’ignaro spettatore ad adattarsi in tempi iper-compressi al mondo che gli viene parato davanti.

Lo sviluppo in medias resdel cortometraggio è dunque radicale. Si chiede talmente tanto a chi guarda che, se una metafora fosse eccessivamente elaborata, o una simbologia smodatamente arzigogolata, il tutto risulterebbe, ammettiamolo, incomprensibile. La componente emotiva in tale equazione risulta dunque fondamentale: è solo attraverso una certa percepita similarità che i due lati dello schermo riescono a dialogare; solo viaggiando sulle frequenze di tale ulteriore connessione che informazioni a contesto più o meno zero possono essere elaborate e comprese.

Se dunque il lungometraggio risulta essere una macchina mastodontica e interiormente complessa, dove ogni ingranaggio deve combaciare perfettamente con tutti gli altri; il cortometraggio, dall’altro lato, lavora cercando di creare un circolo virtuoso tra creatore, personaggi, e destinatario. Per intenderci: non si trova, di solito, “interessante” l’andare dal lattaio la mattina. O il pomeriggio tagliarsi i capelli. Ma se improvvisamente le ciocche che mi vengono tagliate si tramutassero in serpenti, o invece del lattaio trovassi una mucca a servirmi, …ecco. Già la situazione si farebbe un po’ più speziata.

È dunque inutile negarlo: ai cortometraggi piace sconfinare nell’iperemotività, o nella surrealtà. Anzi, a bene vedere un corto ben riuscito tende ad avvicinarsi al sogno, o all’incubo. Ed è esattamente di sogni, ossessioni, e, sì, anche di incubi – tutti tremendamente comprensibili – di cui potrete riempirvi gli occhi in Love Death + Robots. Una serie incredibilmente moderna e in un certo senso senza tempo, che amerete se siete dei novizi del genere post-apocalittico; o che, se ne siete già dei conoscitori consumati, vi risulterà indimenticabile.

P.S. Se navigate un po’ in rete, potreste trovare alcuni siti che lamentano la “ripetitività” del prodotto, la sua scarsa originalità, o querele simili. Personalmente non saprei. Se in una serie antologica ci mettono del nuovo, un po’ mi prendo male. Se proprio non vi volete fidare di me, leggete qualcun altro. Basta che sia tra quelli che muovono obiezioni ragionevoli.

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