Arrivo a Mosca in un caldo martedì sera di luglio. Mi accolgono Piazza Kievskaja e l’imponente e illuminatissimo edifico dell’Evropeisky Mall, centro commerciale. È tardi, ma in giro c’è molta gente. Mangio kebab e birra, da solo in mezzo ad una compagnia di poliziotti e ad un’altra di tifosi brasiliani. Tra due giorni si giocherà, proprio a Mosca, la finale del mondiale tra Francia e Croazia e la città è ancora tempestata di tifosi da ogni dove. Subito dopo inizio una lunga e sfortunata ricerca del mio ostello, chiedo a tassisti, ragazzi e poliziotti, tutti mi indicano un posto diverso nella stessa piazza, immensa. Il mio zaino pesa otto chili, non ho internet e sono stanco del viaggio. Sfiduciato, dopo un’ora mi abbandono sui gradini della stazione. Una delle guardie, accortasi della difficoltà, mi chiede cosa cerco e dove devo andare; è lui ad accompagnarmi all’ostello, che scopro essere l’albergo di passaggio della stazione. Dormo in una camerata con dieci letti, sei sono occupati da operai tra i trenta e i cinquanta, sono qui per lavoro, si fermano solo un paio di giorni, gli altri sono liberi. Intorno alle quattro arriva un altro e si stende nel letto di fronte al mio. Puzza di alcool ed evidentemente non sta bene, poco dopo si lancia nell’unico bagno comune e vomita nel lavandino. Soddisfatto, si mette a dormire. Non ho mai sentito russare così forte, tant’è che il più grosso degli operai, estenuato, si alza e inizia a scuotere il suo letto a castello con una mano sola, insultandolo in tanti modi diversi e intimandogli di smettere di russare. Fingo di dormire. Funziona, ha smesso di russare, torna a dormire anche lui. Si chiude così la mia prima tranquilla serata moscovita.
Ho già visitato Mosca. Decido dunque di evitare i musei ed il Cremlino, cerco qualcosa di insolito. Vado a Kolomenskoe, nella zona sud-est della città. Il parco di Kolomenskoe, lontano dal caos del centro, è una delle zone più tranquille e interessanti di Mosca. Qui si fondono natura e architettura. Nel parco sono infatti presenti vari edifici di culto e antiche residenze degli zar, come il palazzo in legno di Alessio I, ricostruito nel 2010 secondo piani risalenti al regno di Caterina; e la Chiesa dell’Ascensione, vero pezzo forte del parco. La chiesa fu progettata dall’architetto italiano Pietro Annibale e costruita nel ‘500 su ordine dello zar Vasilij III per la nascita del figlio, Ivan, che sarebbe poi diventato Ivan il Terribile. Confesso però che il motivo per cui sono venuto a Kolomenskoe è un altro. Il Golosov Ravine, ruscello che taglia in due il parco per poi gettarsi nella Moscova. È considerato luogo di mistero, varie leggende narrano di presenze sovrannaturali e persone scomparse nel nulla. È inoltre luogo di culto neopagano. Scendo quindi nella gola formata dal ruscello e cammino sulla riva per un lungo tratto. Mi sembra ci sia un’atmosfera particolare, ma forse mi sto facendo suggestionare. Un altro luogo interessante è il Cremlino di Izmajlovo. Costruito tra il 1998 e il 2007 secondo lo stile architettonico russo del XVII secolo, il Cremlino di Izmajlovo è un complesso culturale e di intrattenimento. Le bancarelle iniziano già all’uscita della metropolitana, si incontrano vecchie signore che vendono qualsiasi genere di articolo, dai vestiti ai libri e agli orologi. Mi soffermo ad osservare e scegliere tra un gran numero di spille di epoca sovietica. All’interno del complesso si può ammirare un grande mercato di artigianato locale che propone articoli e souvenir russi di tutti i tipi, dalla matriosca al samovar. Ho camminato a lungo per la città, ho tentato di entrare all’università ma serviva un permesso. Non hanno neanche creduto alla storia più intelligente che mi è venuta in mente, e cioè che fossi uno studente dell’Università di Milano in visita. Serviva un invito, o almeno un tesserino. Avrei voluto vedere i grattacieli che chiamano Golden Brains, che si pensava potessero condizionare le menti della gente in epoca sovietica, ma Piazza delle Scienze era davvero troppo lontana, e avendo già fatto più di venticinque chilometri ho deciso di rinunciare. Sono tornato agli Stagni del Patriarca, uno dei luoghi di Mosca che preferisco. È un parchetto quadrangolare, circondato da edifici residenziali, con uno stagno al centro. Il parco è molto tranquillo, lentamente scende la sera e la successione dei colori del tramonto tra il parco e gli edifici è molto suggestiva e rilassante. Qui inizia il romanzo di Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita:
Nell’ora di un caldo tramonto primaverile apparvero presso gli stagni Patriaršie due cittadini.
Lascio Mosca il giorno prima della finale dei mondiali. Verso sera arrivo in stazione, aspetto il primo treno, direzione Kazan’. Entro nel vivo della transiberiana. Viaggio in terza classe, passerò la notte in treno. Per arrivare da Mosca a Kazan’ ci vogliono quindici ore. La gente corre per raggiungere il proprio vagone. Donnoni in divisa controllano documento e biglietto di ogni viaggiatore e, una volta a bordo, consegnano ad ognuno la biancheria da notte. Un cuscino, un coprimaterasso, un lenzuolo ed un asciugamano. Non esistono cabine, ci sono letti anche lato corridoio. Sono sei per ogni scompartimento, per un totale di cinquantaquattro letti per vagone. Occupo uno dei letti superiori, sotto di me ci sono una vecchia signora, molto grassa e rossa, che evidentemente soffre il caldo, e un uomo sui cinquanta. Nel letto di fronte al mio c’è una bambina, la cui nonna dorme sul lato corridoio. Consumo la mia cena, panini con formaggio e carne, preparati in precedenza. Scambio giusto due parole con il tipo di fronte a me, che, dopo aver fumato quattro sigarette nei dieci minuti prima di partire, mangia carne, accompagnata da cetrioli e patate. Beve tè, ha preso l’acqua dal grosso samovar comune all’ingresso del vagone. Finita la cena, faccio il letto e salgo. Star seduto non è possibile, tra letto e soffitto ci saranno sì e no settanta centimetri. Le luci sono spente, leggo Infanzia di Gor’kij grazie alla luce da lettura comprata il giorno prima di partire. Dormire non è facile, fa molto caldo e manca l’aria. Ci metto un po’ ad abituarmi al letto. Intorno a me dormono tutti. Lentamente prendo sonno, mi addormento. Mi sveglia il controllore quarantacinque minuti prima della mia fermata, per darmi tempo di alzarmi, ripiegare e consegnare la mia biancheria. Il primo viaggio è terminato.
È molto presto, cammino in una Kazan’ deserta. Visito il Cremlino. Le mura della fortezza sono bianchissime, il Cremlino di Mosca è circondato invece da mura rosse. La Moschea di Qol-Sarif, costruita a fine anni Novanta, è la principale moschea del Tatarstan. È meravigliosa, di colore bianco e azzurro, con quattro minareti alti cinquantotto metri ed un’enorme cupola al centro. Può ospitare al suo interno più di 1500 fedeli, la piazza adiacente ne contiene 10000. Kazan’ è per tradizione luogo di tolleranza religiosa; all’interno del Cremlino, oltre alla Moschea, c’è una maestosa cattedrale ortodossa. Poco fuori dalla città invece sorge il Tempio di tutte le religioni. Iniziato nel 1992 e non ancora ultimato, il tempio si pone come simbolo dell’unione delle grandi religioni. Una volta finita la struttura conterà sedici cupole, corrispondenti alle sedici maggiori religioni del mondo. Dormo un paio d’ore sul tavolo di una caffetteria ed esco passate le undici di mattina. La città si è svegliata. Kazan’ è città viva, ricca di storia e cultura, ed è inoltre città universitaria. Ci sono molti giovani in giro. La via principale, che attraversa tutto il centro, brulica di persone da mattina a sera. Qui, in una vera brasserie belga, assisto alla finale del mondiale: la mattina dopo un murales già celebra la vittoria dei francesi. L’ostello è meraviglioso. I tre giorni più comodi della mia permanenza. La cucina tatara è sorprendente. Degni di nota in particolare la shurpa, zuppa di carne di manzo con cipolle, fagioli e patate, e il chak-chak, dolce al miele.
Il treno per Novosibirsk parte molto tardi. Devo muovermi prima che chiuda la metro. Comprato il biglietto, scopro di aver sbagliato stazione. Sto andando alla stazione nord, a quattro chilometri dal centro, invece che in stazione centrale. E la metro chiude tra mezz’ora. Me la cavo grazie all’aiuto di un poliziotto, che avrà sì e no la mia età e prende la situazione molto a cuore, e della sua collega al metal detector, che urla gentilmente informazioni mentre controlla il contenuto del mio zaino. Arrivo in stazione di corsa. Otto chili sulle spalle. Piove molto forte. Mi aspetta il tratto più lungo della transiberiana. Kazan’ e Novosibirsk distano più di 2100 chilometri. Sono 36 ore di viaggio. Dall’Europa si entra nel continente asiatico. Nonostante le fermate siano moltissime, è possibile scendere dal treno solo tre volte, quando si arriva in città importanti, come Ekaterinburg, dove il treno sosta per circa quaranta minuti. Giusto il tempo per comprare da mangiare ai baracchini sui binari e fumare un paio di sigarette. Salgo sul treno in piena notte. Terza classe, sei letti per scompartimento, dormono tutti. Succede una cosa davvero singolare. Da uno degli scompartimenti vicini provengono urla molto forti. Qualcuno sta sragionando. È una donna. È molto strano, il resto del treno sembra non accorgersene. Cessate le urla il treno ripiomba nel più totale silenzio. L’unica persona sveglia oltre a me è una giovane madre. Occupa il letto in basso, lato corridoio. Sta seduta e guarda nella direzione delle grida. Ha i capelli scompigliati, si copre col lenzuolo. È stanca ma inquieta. La bambina, sopra di lei, dorme. Passano e ripassano un paio di volte i controllori, tutte donne. Ad un certo punto ci dicono che siamo i soli svegli nel vagone, e se possiamo seguirle in cabina. Qui ci spiegano la situazione. La donna che urlava è completamente ubriaca, sta male ed è molesta. Sragiona e non è nella condizione di parlare o trattare in modo normale. Vogliono farla scendere alla prima stazione disponibile poiché ritengono non possa continuare il viaggio in quelle condizioni e per farlo hanno bisogno della firma di due testimoni. Un inizio movimentato. Firmiamo e andiamo a dormire.
La mattina dopo sale Al’bert. Ha ventisei anni, è ingegnere meccanico, ha terminato gli studi ed ha un lavoro fisso, non parla inglese, parliamo russo. Mi parla del sistema scolastico russo, chiede informazioni su quello italiano. Si interessa anche del mio viaggio, lo considera insolito ma sa che molti, in particolare stranieri, seguono spesso itinerari del genere. Lui è in ferie, passerà una settimana in tenda tra i monti dell’Altaj. Parlare con lui è piacevole, il tempo passa più velocemente, rimarremo in contatto anche in seguito. Felice è l’incontro con Ženja. Ci conosciamo mentre fumiamo una sigaretta alla stazione di Druzhinino, dove la pausa è di cinquanta minuti. Ha studiato letteratura russa e sta facendo un dottorato per diventare insegnante. Abbiamo gli stessi interessi e sogniamo entrambi di insegnare letteratura russa, dunque abbiamo di che parlare. È in un altro vagone, probabilmente non ci vedremo più, ma una volta saliti in treno, prima di salutarci e augurarci buona fortuna, mi regala una copia del Maestro e Margherita nella versione originale in russo. È il libro che stava leggendo, penso sia un gesto d’amicizia e di grande umanità. Non l’ho più visto e non lo vedrò mai più, ma di lui serbo un ottimo ricordo.
Passare un giorno e mezzo in treno è un’esperienza particolare, stancante, talvolta noiosa, ma anche interessante. Ancor più strano è cambiare fuso orario durante un viaggio in treno. Non si ripercuote immediatamente sul tuo equilibrio psicofisico, ma dopo qualche tempo inizi a percepire il cambiamento di orario. Da Kazan’ a Novosibirsk ci sono quattro ore di differenza. Partito alle 2 di notte del 18 luglio, arrivo in città alle 18 del 19 luglio.
Mi fermo a Novosibirsk solamente un giorno, dopodiché ripartirò per Irkutsk. È una città strana, non riesco a definirla bella. Conosco però diversa gente che ha passato qui un ottimo soggiorno Erasmus, e che si diceva molto soddisfatta e della vita, e della città. È la prima città in Siberia, la terza della Russia, e fu fondata in occasione della costruzione di un ponte ferroviario sul fiume Ob’. Il fiume è immenso, entro fino al bacino. Di fianco a me un signore sui sessanta nuota, senza mai allontanarsi troppo dalla riva. Visito la cattedrale di Aleksandr Nevskij e la piazza principale, che ospita un enorme monumento a Lenin e il pregevole teatro dell’opera e del balletto, che, assieme allo zoo e all’università, rende la città famosa in Russia. Alle 15 mi sembra di aver finito tutto quel che avevo da fare e, passato a casa per una doccia, torno al lungofiume. Mi metto a scrivere. Ho una breve conversazione con un ragazzino. Fa il liceo, ha diciassette anni e molta voglia di parlare. Gli piace il mio modo di parlare russo. Dice che, nonostante commetta degli errori, ho un’impostazione molto letteraria del discorso. Si chiama Sergej, mi lascia il suo numero di telefono. Non gli scriverò mai. L’ostello stavolta è particolare, è un appartamento convertito a ostello. Tre stanze, diciotto letti, un bagno. Nella mia stanza c’è un tipo molto strano, un po’ pazzo pare. Conosce la proprietaria, non abita lontano dalla città ma in questo periodo risiede nell’ostello. Non ho capito che lavoro fa. La sera del mio arrivo mi ha preparato una buona cena, è stato molto gentile. Durante la mia ultima notte abbiamo una stupida discussione perché secondo lui faccio troppo rumore andando a letto, è troppo tardi.
Parto in mattinata. Novosibirsk-Irkutsk è un’altra tratta molto lunga, 32 ore. È un viaggio sfortunato. Occupo il solito letto sopraelevato, sotto di me c’è un gruppo di bambini di San Pietroburgo tra i dieci e i tredici anni. Cantano, parlano, giocano ininterrottamente per tutto il viaggio. Non un attimo di tranquillità. In più ho sbagliato a fare la spesa, per due giorni mangio banane, talvolta con la nutella, ma sempre banane. Un viaggio sfortunato.
Arrivo a Irkutsk alle 18. Sono terribilmente stanco. L’ostello non dista molto dalla stazione. C’è una strana nebbia, pioviggina. Mi fermano per strada un paio di folti baffi. È un senzatetto, mi chiede dei soldi e da bere. È basso e tozzo, molto rosso in viso. Porta un berretto pesante e un giubbetto lacero. La moglie sembra malata, ha il volto scavato, indossa un velo. Ho solamente quindici rubli. Appare visibilmente deluso, mi chiede una sigaretta. Gliela do, lo saluto. L’ostello è una casetta a due piani al centro di un cortile quadrato. La camera non appare pulita, il tappeto da brividi. Decido di posare le mie cose e bere una birra. Insiste per accompagnarmi un armeno sui cinquanta. Sembra essere amico della proprietaria. Mi porta in un ristorante messicano. Mi chiedo che ci faccia un messicano ad Irkutsk, ma si trova proprio sopra Papa John’s Pizza, dunque smetto di farmi domande. Offre lui, prende due birre da mezzo litro. Smette poi di bere, ma a me ne offre altre due. Parla molto, racconta di lui. Mi offre anche diverse sigarette. Fuma Petr I, è la prima volta che le sento. Ha lasciato l’Armenia da molto tempo, vive a Irkutsk e fa il calzolaio. Quando parla di lavoro, colgo l’occasione per chiedergli come andassero le cose con l’Unione Sovietica. Dice che prima si lavorava e si viveva meglio, che la sua famiglia stava meglio e guadagnava di più, in Armenia, repubblica socialista sovietica fino al ’91, e lì in Siberia. Definisce Gorbačëv un “americano”, che ha in qualche modo tradito la Russia, trasportandola nel baratro. La conversazione finisce in modo alquanto inquietante. Dopo avermi offerto circa due litri di birra e quattro cinque sigarette, mi chiede se, “per caso”, non voglia vedere il suo laboratorio seminterrato, dove vive e lavora. Declino gentilmente l’offerta, anche la seconda, relativa al giorno dopo, e rientro in ostello. Pochi giorni dopo ho una conversazione simile, tolta la conclusione, con la proprietaria dell’ostello. Quello che dice è per certi versi impressionante. Ritiene che in Unione Sovietica “tutto avesse una base, tutto fosse regolamentato”, dunque che tutto funzionasse perfettamente, senza intoppi. Anche lei ce l’ha con Gorbačëv, dice che “ha portato in Russia un modello di democrazia occidentale che qui non può funzionare, e che infatti non ha funzionato”. Apprezza Putin, poiché si è dimostrato un leader forte e ha riportato nel paese l’ordine che il paese necessitava. Apprezza anche l’operato del presidente in ambito internazionale. Pensa che la Russia sia in qualche modo isolata dal resto del mondo per via del timore che incute alle altre nazioni, si dice orgogliosa di essere russa. Mi ricorda che quasi ogni famiglia ha avuto una vittima durante la grande guerra patriottica. Il discorso è molto diffuso in Russia, in giro è possibile osservare manifesti e adesivi del giorno del ricordo della vittoria della guerra, che recitano мыпомним, мы гордимся! (“My pomnim, my gordimsija!”, “Noi ricordiamo, ne siamo orgogliosi!”).
Succedono un sacco di cose strane a Irkutsk. Sono seduto a riposare in un parchetto di via Gor’kij, mi si avvicina un tipo, si siede, mi scrocca un sigaretta e mi fa: “Da dove vieni?”, rispondo che vengo dall’Italia. A quel punto dice “Io vengo dalla Crimea, ricorda che la Crimea è sempre stata Russia, e sempre sarà Russia”. E va via. La città non è imperdibile, le cose da vedere non sono molte. Irkutsk è soprattutto uno dei più famosi, e comodi, punti di approdo per visitare questo lato del lago Bajkal, uno dei laghi più grandi e profondi al mondo. Ho fatto in modo di organizzare un tour in solitaria di una giornata per visitare il lago accompagnato da una guida. Parto la mattina presto. Maksim è la mia guida. Ha trentacinque anni, gestisce un’agenzia viaggi con la moglie. Andiamo con la sua macchina. Dopo aver visitato un museo a cielo aperto, riproduzione di una antica fortezza siberiana, ci dirigiamo al lago. È una strada molto lunga, tutta dritta e circondata da foreste di conifere. Ci fermiamo nel punto in cui il fiume Angara entra nel Bajkal, mi racconta la storia del lago e mi mostra la Shaman stone, che dopo vedremo più da vicino. In questi luoghi è diffuso lo Sciamanesimo. Parcheggiata la macchina poco lontana, andiamo in motoscafo. Ci conduce un vecchio pescatore. Mi risulta impossibile comprendere quello che dice, mi trovo in una situazione paradossale; parlo russo con Maksim, che parla russo con il pescatore e poi mi traduce, in modo comprensibile, quello che dice l’altro. Il lago è immenso, sconfinato, è possibile vedere solamente la sponda da cui siamo partiti e l’inizio di quella più vicina, altra sponda dell’Angara. Ci lascia su una piccola spiaggia di sabbia e sassi. Percorriamo cinque chilometri a piedi lungo i binari della vecchia ferrovia, ancora attiva ma utilizzata raramente. Il panorama è spettacolare. Stanchi, a poco più di metà percorso ci fermiamo a riposare su un’altra spiaggia. Provo a entrare in acqua, ma la temperatura del lago a fine luglio è cinque gradi, e riesco a entrare solo fino alle ginocchia. Maksim dice di aver fatto il bagno una volta, completamente, e di aver anche nuotato. Arriviamo a Port Bajkal, una cittadina di duecento abitanti. Mi chiedo come possano abitare qui sul serio. In questo posto non c’è davvero nulla. Il pescatore ci recupera alla fine della cittadina, e, ripercorso il tratto in motoscafo, prendiamo la macchina per andare a Listvjanka, una delle città più turistiche del Bajkal. Ci sono dacie incredibili, tremendamente sfarzose e tremendamente kitsch. Dopo aver mangiato piroshki ripieni di carne e patate, terminiamo il pranzo al mercato del pesce, dove il pescato viene venduto pronto da mangiare, cucinato alla maniera di qui. È davvero buono. Più tardi visitiamo una chiesa e infine ci rechiamo in cima ad una delle colline sopra Listvjanka, punto privilegiato d’osservazione. Non si distingue il cielo dal lago, che all’orizzonte si perde nella nebbia. Scesi, torniamo a casa. È stata una bella giornata.
Con un ultimo treno passo dall’altra parte del lago. Viaggio in seconda classe, in uno scompartimento da quattro. Sono sette ore, dormo un’oretta, verso sera arrivo a Ulan Ude. In ostello conosco Juan Pablo, argentino, ventiquattro anni. È arrivato in Russia prima dei mondiali e, tra lavoretti e coachsurfing, non rientrerà a casa prima di fine anno. Ha intenzione di andare in Mongolia, Cina e Thailandia. Arrivati entrambi da poco, insieme usciamo per cercare di procacciarci la cena. Ulan Ude al calar della sera ci si presenta come una città triste, fredda. La piazza principale è dominata da una testa monumentale di Lenin. Meravigliosa. Sono le nove e mezza, sulla via principale tutti i locali sono chiusi. Non so se per fortuna o per sfortuna, troviamo un posto aperto, la pizzeria Venezia. Mangio una quasi margherita. Paghiamo e andiamo a casa. Il giorno dopo, molto presto, vado a prendere il bus per Ulanbaator, Mongolia. Juan Pablo viene con me, nonostante non abbia il biglietto, ed è fortunato; riesce a salire. Il viaggio in bus è tranquillo. Il paesaggio cambia radicalmente, non più conifere, distese molto verdi ma molto spoglie. Il passaggio in dogana è lungo e stancante. Un’ora e mezza alla dogana russa, poco meno a quella mongola, ma sono ufficialmente in Mongolia.
Ulanbaator è la maggiore città della Mongolia, è una bella città, anche se spesso molto trafficata e in alcuni punti molto povera. Un luogo particolare, assolutamente da non perdere, è il monastero di Gandan. È il principale centro buddista mongolo, fondato nel 1835 e riaperto nel 1944 in seguito alle repressioni staliniste. Il suo nome, Gandan Tegčinlin hijd, in mongolo significa “monastero della città perfetta”. Ospita una statua di 26 metri in acciaio, rame, oro e argento di Megjid Janraiseg, il Dio che guarda ovunque. L’ostello di Ulanbaator è il migliore dell’intero viaggio. Qui lego con due ragazzi, un danese e un giapponese, che stanno facendo viaggi pazzeschi. Il primo, Rasmus, è in Mongolia da due mesi. Si mantiene con un’eredità, talvolta con qualche lavoretto, e ha girato nell’ovest del paese. Ha usato tutti i mezzi possibili, dall’autobus al cavallo, arrivando anche a comprare una motocicletta, che ha poi rivenduto per 500 dollari e due pelli di lupo. L’altro si chiama Shohei, ha ventotto anni e ha imparato l’inglese solamente l’anno scorso. Ha deciso di intraprendere un viaggio lunghissimo in solitaria, accompagnato solo dal pupazzetto e amico Sudachikun. È qui dopo aver attraversato la Cina, e andrà poi in Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Azerbaijan, Georgia, Armenia e Turchia. Insieme ci rechiamo in visita ad una famiglia nomade mongola ad est della capitale. Viaggiamo su una jeep, su strade sterrate in mezzo alle colline. La famiglia abita in tende chiamate gher. Ci accolgono nella tenda-cucina, al centro le donne stanno scaldando l’acqua per il tè, che consumeremo con il latte. Gli spazi comuni sono la tenda-cucina e la tenda-salotto, ci sono poi una tenda per le donne, una tenda per gli uomini e una tenda per gli ospiti, dove dormiamo noi tre. Non si fanno mancare le comodità, utilizzano cellulari e motociclette. Stanno facendo stagionare del formaggio all’aperto. Bambini piccolissimi cavalcano disinvolti intorno a centinaia di pecore. Passiamo due giorni tra camminate tra le colline, gite a cavallo e banchetti con cibi locali, bevendo vodka mongola. I vecchi parlano qualche parola di russo, con tutti gli altri è possibile esprimersi solamente a gesti, o con la mediazione della nostra guida, una ragazza mongola di trent’anni di nome Dasha. È una delle esperienze più belle del viaggio.
Volo a Pechino. Il caldo è soffocante. Dalle 8 alle 23 ci sono tra i trenta e i quaranta gradi, percepiti sessanta. È tutto molto grigio, a volte non si vede il cielo. In giro c’è moltissima gente. Di notte però non c’è anima viva. Alcune strade vengono chiuse. Visito Tienanmen, la città proibita e due parchi enormi. Vado per due sere di fila al Donghuamen night market. È molto turistico, ma è possibile provare cibi tradizionali e stranissimi. Assaggio due pietanze, scorpioni e cavallette. Non saprei descriverne il sapore, ma preferisco gli scorpioni e sconsiglio le cavallette. A Pechino provo l’esperienza del barbiere. Entro per tagliarmi la barba. Il parrucchiere sembra non capire, forse perché qui portare la barba non si usa. In aggiunta, l’unica parola inglese che conosce è haircut. Con gesti, google traduttore e mie vecchie foto riesco a fargli capire cosa intendo. Il risultato è sorprendente. Ho una barba incredibilmente in ordine. La Grande Muraglia è bellissima. Siamo in tredici, è un tour organizzato dall’ostello. Ci portano in un ramo laterale. Non c’è nessuno. Camminiamo per quattro chilometri, ma sembrano molti di più. Dobbiamo superare otto torrette, fermarci sulla nona. Capita che da una torretta non si veda la torretta successiva, sull’altro versante della montagna. Arriviamo in fondo circa in dieci. Stanchissimi. La vista è meravigliosa, così come la passeggiata. Tornati giù ci attende un banchetto cinese offerto dalla guida. È l’occasione per conoscersi meglio dopo la camminata. Alcuni, come me, viaggiano soli, altri in coppia. C’è chi arriva da una transiberiana, chi sta facendo un tour della Cina in treno e chi è a Pechino solamente un paio di giorni perché sta lavorando a Shangai. In molti, me compreso, partiranno l’indomani. Questa sera brindiamo assieme.
Parto da Pechino alle tre di notte. Vado a San Pietroburgo, passando per Novosibirsk. Vivo una giornata lunghissima. Arrivato a Novosibirsk alle sette, le otto a Pechino, riparto a mezzogiorno. Arrivo a San Pietroburgo esattamente a mezzogiorno. Qui ritrovo Alice, dopo un mese. Sta frequentando un corso di russo all’Università di Pietroburgo. Sto con lei una settimana, alloggiamo in un airbnb in zona centrale, dietro piazza Sennaja. È a Pietroburgo già da un po’, è felice di portarmi in giro e mostrarmi la città. È bellissima, la più bella di tutte. La mattina, quando è a scuola, faccio lunghi giri in solitaria. Assieme visitiamo l’Ermitage, meraviglioso, e la fortezza di Pietro e Paolo, cittadella di San Pietroburgo, nucleo originario del 1703. Andiamo poi al museo Achmatova, casa del poeta negli anni Quaranta, e al Cane Randagio. Qui, nei primi anni del Novecento, poeti come Mandel’štam, Cvetaeva e la stessa Achmatova leggevano in pubblico le loro poesie. Ci divertiamo a girare per i cortili pietroburghesi, che nascondono bar e negozi vintage frequentati da giovani russi. Mangiamo ogni genere di prelibatezza, dai bliny col caviale allo stroganoff, ricetta a base di manzo, cipolle, funghi e panna acida, dal Khacapuri, pizza georgiana, ai pel’meni, tipici ravioli russi. Una delle ultime sere io e Alice facciamo un giro tra i luoghi di Delitto e castigo, ambientato proprio in questo quartiere. Vediamo casa di Raskol’nikov, casa di Sonja, il commissariato di polizia e il ponte sul quale muore Marmeladov. La casa dell’usuraia risulta troppo lontana. Rientriamo nel nostro monolocale con soppalco.
Prendo l’aereo con un po’ di tristezza. Passo un’ultima giornata a Berlino, che visito per la prima volta. Atterro a Milano a trenta giorni esatti dalla mia partenza. In un mese, tra andata e ritorno, ho percorso circa undicimila chilometri e visitato undici città. Ho preso quattro treni, un bus e cinque voli. Camminato circa venti chilometri al giorno e perso quattro chili. Ho incontrato persone diversissime e conosciuto culture nuove. Di alcune non conoscevo nemmeno l’esistenza. Ho parlato quattro lingue diverse, talvolta tutte insieme, e scritto moltissimo, sempre in italiano. Ho ritrovato casa a Pietroburgo prima e a Milano poi. Torno infinitamente più ricco.
Un pensiero su “Transiberiana in solitaria”
Stupendo. Si resta coinvolti fin dalle prime righe.
Vien voglia di tornare giovani per provare l’ebbrezza di un viaggio in solitaria fuori e dentro sé stessi