Chiara Marchelli è un’autrice da placcare al volo che arriva in Italia per poche settimane durante un tour di presentazioni serrato, visto che a New York l’aspetta il suo lavoro e la sua vita fatta di lezioni universitarie, corsi si scrittura creativa e corse mattutine per le strade dell’ultima città che l’ha adottata.
Dopo la sua candidatura allo Strega 2017 con Le notti blu e un saggio su New York City Chiara Marchelli torna con grinta nel panorama editoriale italiano con un nuovo libro: La memoria della cenere, pubblicato da NN editore.
-Dopo Le Notti Blu, come sei arrivata al nuovo libro?Aspettandolo: fino a Le notti blu c’è stato un movimento fluido nel passaggio da un libro all’altro, invece per La memoria della cenere ho dovuto aspettare un anno. Per Le notti blu ho avuto un percorso di scrittura piuttosto intenso, e anche quello che poi è seguito [selezione dei 12 allo Strega 2017] mi ha preso molte energie e molta concentrazione. Ho tenuto in testa una suggestione fino a quando poi evidentemente l’idea ha preso corpo e ho iniziato a scrivere. Non è stato facile iniziare, è stato molto lungo il concepimento ma quando poi mi sono messa a scrivere è arrivato tutto insieme: non ho mai scritto così rapidamente una prima stesura di un libro.
-Questo non è nella tua tendenza quindi?
Per la prima stesura non ci metto mai più di sei mesi. Prima c’è il capire cosa scrivere e poi la fase di ricerca che continua anche mentre sto scrivendo. E’ difficile che mi blocchi se so dove voglio andare, ma in questo caso per questo libro l’anno di attesa è servito proprio da serbatoio. Calcola che mentre stavo scrivendo La memoria della cenere contemporaneamente era in stesura anche il libro su New York [New York una città di corsa, Giulio Perrone editore 2018] e stavo insegnando. Non so ancora adesso come abbia potuto scrivere La memoria della cenere con questo tipo di concentrazione, ma è venuto in due mesi e mezzo.
-Si sente questa energia nel romanzo, ha una scrittura molto coerente per un libro decisamente compatto. L’editing è stato lungo?
Il mio è sempre feroce e furibondo. Non ho dato in mano all’editor la prima stesura, sono tornata su certi capitoli, ho spostato e ho lavorato molto prima di darlo alla mia agente e poi all’editore, NNE. Con Eugenia Dubini e Serena Daniele abbiamo poi fatto un lavoro di cesellatura: abbiamo lavorato sulle assonanze e sulle ripetizioni, come se avessimo una lima. Con loro mi sono trovata benissimo, è esattamente come lavoro io sul testo.
-Arriviamo al romanzo. La protagonista è Elena, una scrittrice che in seguito ad un trauma si trasferisce da New York all’Auvergne nel centro della Francia. Elena, a differenza tua, non riesce a scrivere.
Ho avuti pochi blocchi per questo romanzo, ma ho ben presente cosa vuol dire averne. Quelli che io vivo sono naturali e sani, come quelli di una qualsiasi persona che fa un lavoro creativo. Invece Elena ha un altro tipo di blocco. Innazitutto lei all’inizio non riesce fisicamente a lavorare, il suo cervello e il suo corpo si stancano per tutto: deve imparare nuovamente a bere, mangiare e alzarsi. E poi è in un momento di rinascita, di guarigione così profonda che deve ancora capire come riassumere un po’ se stessa: non è facile per Elena scrivere in una fase del genere, quando ancora deve riassestare la propria identità. Ha bisogno di distanza e di comprendere dove si trova e cosa vuole: non riesce neanche più ad inventare delle storie, cosa che non le è mai successa. Il trauma ha mutato anche la sua scrittura.
-Perché il centro della Francia?
Dal punto di vista narrativo avevo bisogno di spostare Elena da ciò che conosceva: il trauma l’ha stordita e strappata bruscamente dalla sua identità e dalla sua vita, quindi Elena deve cercare una pagina nuova. Lei e il suo compagno Patrick scelgono di dare realtà al progetto che avevano di andare a vivere in Francia, perché l’unico viaggio possibile per Elena è una vicinanza, ma non un ritorno verso il luogo in cui è nata.
Non perché ha il rigetto al pensiero di rientrare, ma perché è consapevole che la casa che ha lasciato non esiste più. Vuole avvicinarsi perché si sente profondamente Europea, e sceglie di andare a vivere nel paese di Patrick perché lui questo sentimento di perdita non ce l’ha. E’ un uomo più pratico: ha una casa in cui si può abitare insieme, è un bel posto, c’è la natura e il silenzio di cui hanno bisogno entrambi.
La regione dell’Auvergne mi interessava molto e mi incuriosiva, mi piaceva il connubio tra pianura e vulcano, il clima e l’equidistanza tra il mare e le montagne. Ma non volevo vederla prima: ho inventato sia il paese che il vulcano. Volevo avere la liberà di scrittura almeno su questo, essendo legata fortemente alle costrizioni delle varie fasi vulcaniche e dalle condizioni mediche [è tutto molto accurato]. Volevo scoprire il paese insieme ad Elena: essere almeno in questo selvaggiamente libera.
-Elena sente molto la distanza da casa, ma Patrick no, come mai? E cosa succede quando è la vecchia casa di Elena a raggiungerla, ossia quando i genitori di lei arrivano in Auvergne?
Nel momento in cui i genitori arrivano e si sviluppano le interazioni quotidiane tra i personaggi l’insofferenza di Elena scoppia. Ed è una situazione assolutamente naturale: quando un adulto viene raggiunto dai propri genitori dopo anni in cui vive in un altro paese, costretti in una stanza senza uscire…dopo un po’ saltano i meccanismi del buon sopportare. Aggiungi che Elena non sta bene, tutti sono estremamente cauti con lei e questo sentirsi accudita deteriora ancora di più i suoi nervi. Per quello che riguarda il rapporto che i due personaggi hanno con le proprie famiglie Patrick probabilmente ha già risolto molte cose: suo padre è morto anni prima e la madre poco dopo. Con lui è tutto un guardarsi dentro, una risoluzione interiore: non c’è da chiedersi dove tornare, perché non c’è più nessuno. Torna a dei luoghi, non dalle persone che non ci sono più.
-Restiamo sul rapporto di Patrick con Elena. Tu ad certo punto fai dire ad Elena che il suo compagno la coccola molto con la cucina e con la scelta del vino ad esempio; ma Elena ammette anche che Patrick metterebbe così tanta passione nelle proprie azioni anche se non stessero insieme.
E’ la forza del loro rapporto: Patrick sa benissimo come stare per conto suo, sa essere indipendente; ama molto le sue ricerche, gli piace cucinare e scoprire vini nuovi. Lo farebbe con e senza di lei: il loro rapporto è molto onesto, non ci sono sacrifici nei confronti degli altri. C’è invece una decisione di vita comune, un compromesso nel senso buono del termine: lavorare per uno stare insieme. Patrick non è soffocante o accudente, lo è in questa fase perché la deve aiutare a guarire ma non è un uomo del genere e lei lo sa.
-Parliamo di Elena e di suo padre: si sente molto l’incomunicabilità tra i due personaggi, una tensione che però non si concretezza in parole.
Si sente molta tenerezza ma molta frustrazione da parte di entrambi. I due non sono riusciti a stabilire una comunicazione verbale, che invece c’è con la madre, ma tutta una serie di gesti sotterranei e di sguardi. Sono entrambi molto attenti a vicenda. Ed è per questo che è difficile verbalizzare: non puoi giocare con le parole, non puoi fingere quando la comunicazione è così diretta. Il rapporto genitori-figli è delicato. Ci sono tante cose dei figli che i genitori non sapranno mai e viceversa -grazie al Cielo! La comunicazione può arrivare fino ad un certo punto: ci sono cose che restano non comunicate, ma questo non toglie che vengono comunque trasmesse nell’eredità sentimentale che ci portiamo dentro. Non tutto è verbalizzabile, purtroppo per me perché è la mia ostinazione da scrittrice.
-Tu su questo lavori molto nei tuoi libri. Laddove non ci sono le parole i gesti ci fanno capire molte cose. Forzatamente in alcuni passi lasci i dialoghi quotidiani, per lasciare più spazio ai gesti.
Cerco di esplorare il quotidiano della normalità. In famiglia facciamo tutti in questo modo: è difficile che ci siano i grandi litigi ogni cinque minuti, collezioni non detti e reprimi tutto per non esplodere; e va bene così.
-Quanto carichi i personaggi di cose tue?
Dipende da cosa sto scrivendo e dal personaggio che sto raccontando. Il libro passa attraverso il nostro sguardo, quindi c’è sempre qualcosa di personale. Distribuisco ciò che conosco di me e delle persone che mi sono intorno dentro i personaggi in modo coerente: è difficile che ci sia solo un personaggio dentro al quale io mi veda. Per La memoria delle cenere è più facile vedere elementi autobiografici perché Elena ha la mia età, è di Aosta e come me va a vivere a New York. E’ la prima volta che racconto in prima persona dal punto di vista femminile e quindi la tentazione di pensare che io sia Elena è comprensibile. Ma c’è molto di me anche in Bruno e nei genitori di Elena.
-Soddisfazioni per adesso sul libro? Come hai sentito i lettori?
Sono molto sorpresa: il libro raggiunge i lettori con una immediatezza che è nuova per me. L’atteggiamento con cui parti e fai il tuo lavoro lascia un’impronta. Questo mio stare nella suggestione per un anno e poi scendere così organicamente dentro la storia, con un’onestà intellettuale che per me è fondamentale, credo che indipendentemente da quello che io ho scritto raggiunga le persone. E credo che sia questo il punto, non tanto la storia e lo stile, ma piuttosto l’energia che passa. L’energia è fondamentale per la scrittura.