“La Norvegia va visitata almeno una volta nella vita. Il segreto del suo fascino è molto semplice: è uno dei paesi più belli del mondo.”
Questa la frase di presentazione dell’ultima edizione della Lonely Planet dedicata alla Norvegia, affermazione con la quale sarebbe difficoltoso dissentire. Smilzo gigante scandinavo rinomato per il salmone e per i fiordi, la Norvegia è cara; però è pop, e il desiderio di concedersi una vacanza estiva “alternativa” tra la sua fresca, lussureggiante natura monta nelle menti del Sud del mondo. Ultima meraviglia del vecchio Occidente, questo Stato sembra attrarre anche per la qualità della vita dei suoi cittadini, i quali figurano da decenni in cima a tutte le classifiche che contano: parità dei sessi, PIL pro capite, debito pubblico, benessere, efficienza dei sistemi scolastico e sanitario, produzione di energia da fonti rinnovabili, turismo in costante ascesa. Le statistiche riportano che la Norvegia è un paese felice, osservato dal resto del mondo come uno strano mirabilia custodito sotto una campana di vetro, barriera che i tipi di Iperborea, nelle vesti della collana The Passenger, vogliono fracassare.
The Passenger è infatti una serie sui generis. Accattivante copertina rigida, colori suadenti per grafiche e copertine, magistrali immagini degli affiliati all’agenzia italiana Prospekt Photography, taglio ironico e conversativo. Queste le caratteristiche del libro-magazine di Iperborea, nato per celebrare il racconto della contemporaneità e l’inesausta curiosità di coloro che viaggiano non per distrazione, ma per indole. Ogni capitolo, occupato da un long read che varia dall’inchiesta al saggio passando per il reportage, ha allora il compito di presentare un aspetto nascosto della destinazione in questione, fornendo ai lettori un controcanto alla perfezione commerciale delle guide di viaggio “pure”. The Passenger, insomma, riunisce le migliori riflessioni delle migliori voci sul tema per confessare luci e ombre di tutti i posti che avreste sempre sognato di visitare. La collana comprende, ad oggi, le seguenti destinazioni: Islanda, Olanda, Giappone, Portogallo, Grecia, Norvegia, mentre il volume su Berlino è in uscita il settembre prossimo.
Perché vale dunque la pena di scoprire che cosa succede negli allevamenti intensivi di salmone, o chiedersi dove vada a finire il petrolio che viene estratto dal più ricco bacino d’Europa, mentre si viene cullati da un sottofondo di storia e mitologia narrato con le parole delle band black metal? Che relazione intercorre tra il bunad, costume tradizionale norvegese, e la lingua – o meglio, le lingue – ufficiali del Paese? Perché una consistente comunità portoghese è emigrata al Nord per dedicarsi alla pesca e lavorazione del baccalà? E soprattutto: che cosa vuol dire essere una femminista nel luogo più paritario del mondo?
Ammetto di non avere avuto il tempo, o la forza, di annotarmi queste domande qualche anno fa, quando mi accomodai sul sedile di un aereo e volai verso due settimane di rinfrescante estate scandinava. Non me le feci nemmeno dopo esser stata seduta su un’auto fino a Capo Nord, né dopo essermi nutrita a carne di renna. Di certo non dopo essermi trovata assalita da cascate a ogni curva della strada, né dopo aver visto il mio mezzo di trasporto inabissarsi come se nulla fosse in una galleria sotto il livello del mare. Per non parlare di quando ho visitato il modernissimo quartiere di Oslo in cui si trova il teatro dell’opera, quando mi sono persa nel Museo Munch, o di quando ho lasciato un cerino votivo ai piedi della statua di Henrik Ibsen nel centro della capitale.
In quei giorni pensavo che avrei voluto poter chiamare “mia” una di quelle casette rosse che dividono la linea della costa da quella delle acque e che stanno tanto bene in cartoline (tra parentesi, il loro nome è hygge), e che era piuttosto bizzarro rincasare dopo cena, alle 22, camminando nella luce delle cinque di pomeriggio. Mi perdevo a salutare ogni divinità che spuntasse da dietro un albero, o un arbusto, e rimanevo piacevolmente stupita ogni volta che eravamo costretti a pagare il biglietto dell’autobus con la carta di credito (i norvegesi portano ancora in tasca qualche corona in forma di monetina, ma sembrano restii a dimostrare di possedere ancora soldi fisici, all’occorrenza non rintracciabili dal fisco).
Vagabondare in Norvegia è intenso e meraviglioso. È un’esperienza che ha il potere di scompaginare gli strati più profondi dell’anima umana, e che introduce alla inconsueta accoglienza della culla di ghiaccio che protegge il Paese per buona parte dell’anno. Vi si respira un’aria antica, primigenia, che sa un po’ di plancton, e si impara che quello di impazzire alle prime avvisaglie di un temporale è un vizio tutto mediterraneo.
Paradossalmente, dunque, consiglierei la lettura delle “guide” de The Passenger solo dopo aver visitato il luogo in questione, e non preventivamente, così da lasciarsi cantare dal vento il cuore profondo di questo peculiare mondo di gelo perenne. E per potersi stupire nello scoprire che essere norvegese non ti fa automaticamente crescere alto, biondo, diafano, e con gli occhi azzurri. Ma questa è un’altra storia, che vi verrà narrata, a fianco di altri motivi di gioia e di dolore, tra le pagine di The Passenger – Norvegia, succulento concentrato di essenze umane che mai troverete indicato tra i ristoranti consigliati dalle guide tradizionali. Valore che, però, si può comprendere solo dopo aver cercato conforto in una Lonely Planet, o qualsiasi altra edizione di guida on the road, di cui vi invito perciò a equipaggiarvi. La gentile straordinarietà del reale nudo e crudo ha bisogno dei suoi tempi di sedimentazione.