Tenere vive le braci: Doppio vetro di Halldóra Thoroddsen

Pubblicato il Pubblicato in Critica, Letteratura

Lo scorso 24 febbraio, nel corso di un evento parte del festival “I Boreali” presso il Teatro Franco Parenti di Milano, Emilia Lodigiani lodava la letteratura nordica per la sua “capacità di calare le grandi domande dell’umanità in situazioni quotidiane”. La fondatrice della casa editrice Iperborea– a cui nella stessa occasione veniva oltretutto annunciato il conferimento dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine Reale al Merito di Norvegia – descriveva così una delle principali caratteristiche che accomunano gli autori “boreali” che la casa editrice porta e diffonde in Italia ormai da più di trent’anni.  Caratteristica che, un paio di mesi più tardi, il pubblico avrebbe potuto ritrovare anche in una nuova uscita: Doppio vetro dell’islandese Halldóra Thoroddsen.

Il quotidiano che emerge in questo caso è quella di un’anziana donna e della sua pacata esistenza in un tranquillo appartamento in centro a Reykjavík; un’esistenza come tante, ormai giunta al tramonto e che ha già salutato da tempo il proprio fulgore e i tempestosi susseguirsi di emozioni che caratterizzano la giovinezza. Questa esistenza appartata e calma viene però a un certo punto scossa da quello che non si può certo definire – secondo una metafora geologica spesso abusata – un “terremoto”, ma piuttosto – spostandosi su un’immagine ben più vitale – da una nuova linfa che, poco alla volta ma in modo deciso e inesorabile, imprime alla vita della protagonista una svolta inaspettata: un coetaneo inizia a farle la corte fino a dichiararle (ricambiato) il proprio amore.

Ecco quindi emergere una delle “grandi domande” di cui parlava Emilia Lodigiani: quella sulle relazioni che sbocciano ormai in età avanzata e sull’amore nella vecchiaia. E se di libri d’amore l’universo letterario abbonda, non si può certo dire che il particolare aspetto dell’amore nella “terza età” sia poi mai stato ampiamente trattato e indagato; anzi, questa sfaccettatura del tema pare essere sempre stata (ed essere tuttora) quasi rivestita da un certo velo di tabù, che impedisce agli altri di parlarne o, a chi ne sia coinvolto in prima persona, di non sentirsi almeno un po’ in imbarazzo e incerto sul da farsi. Lo stesso accade alla donna del libro, che si trova improvvisamente costretta a uscire dal doppio vetro – il reale vetro della finestra di casa da cui ama osservare Reykjavík, ma anche il vetro metaforico della propria “comfort zone”, in cui si era rintanata con l’avanzare dell’età – e ricominciare ciò che dopo la morte del marito pareva perduto per sempre, continuando incessantemente a porsi domande e a riflettere si questa sua nuova condizione. “Ma la vecchiaia non deve bruciare tra le fiamme, semmai tenere vive le braci”, riflette la protagonista del romanzo di Halldóra Thoroddsen, facendo eco all’opinione comune che prevedrebbe che, arrivati a un certo momento della propria vita, si smetta di cercare il fuoco vivo e ci si limiti al calore di ciò che rimane e si sta ormai consumando.

La breve vicenda (poco più di 100 pagine nell’edizione italiana) è raccontata in uno svolgersi di trama che è possibile seguire con fluidità – dalla vita precedente della protagonista insieme al defunto marito fino all’incontro con il nuovo compagno di vita e ciò che ne seguirà – ma che si caratterizza per essere esposta tramite singole scene che alternano la narrazione a momenti più descrittivi o riflessivi. Il tutto con una estrema tenerezza che non cade mai nell’essere sdolcinata e che è sicuramente tra i motivi che hanno portato l’autrice – classe 1950, con un passato da insegnante, grafica e autrice di alcuni programmi radiofonici e che, come la protagonista del proprio romanzo, vive oggi nella capitale islandese –  a vincere il Premio della Letteratura Europea nel 2017 proprio grazie a questo libro (il suo primo a giungere in Italia).

Tra gli aspetti più pregevoli del testo (oltre, chiaramente, all’aver puntato i riflettori su un tema così spesso ingiustamente ignorato ma che, invece, merita una riflessione) si trova proprio la dolce vitalità della lingua, per cui chiunque non possa accostarsi all’originale islandese deve rendere grazie alla traduttrice Silvia Cosimini. Parole sempre ponderate con cura e precisione in una sorta di “lirismo delle piccole cose”: nessun tono struggente o patetico, ma una tenerezza che sfuma da oggetti ed espressioni quotidiani, scelti attentamente e profondamente evocativi pur nella loro semplicità; insomma, uno stile che in alcuni passaggi arriva a rispondere in pieno alle esigenze di una funzione del linguaggio che il celebre linguista Jakobson avrebbe definito “poetica”: il messaggio è incentrato su se stesso, dove la costruzione di espressioni e frasi è attentamente condotta anche nello costruzione di significati connotativi. Così, ad esempio, la donna si trova ad osservare “il volto inciso da rune” di Sverrir, o i due amanti “si tengono per mano e si spazzolano via a vicenda granelli di polvere immaginari”.

E nel leggere di questa ritrovata vitalità sembra quasi di sentire in un angolo della testa le note di una famosa canzone eseguita da alcuni celebri connazionali della Thoroddsen, che (pur con toni ben più spensierati), immaginano un gruppo di vecchietti di Reykjavík divertirsi come ragazzini e “saltare nelle pozzanghere”:

Rennblautur / Allur rennvotur / Engin gúmmístígvél / Hlaupandi inn í okkur / Vill springa út úr skel […] Hoppípolla / I engum stígvélum”.

 

Bagnato / completamente inzuppato / senza stivali di gomma / correndo in noi stessi / vogliamo uscire da una conchiglia […] Saltando nelle pozzanghere / senza stivali”.

(Sigur Rós, Hoppípolla)

Un fermo immagine dal video di Hoppipolla (2005) dei Sigur Ros. Nonostante la scelta produttiva di rendere alcune immagini quasi sfuocate, la vivezza del loro significato non fa fatica a emergere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

WordPress spam blocked by CleanTalk.