La grandezza delle lande e della bufera

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Pini e betulle innevati, a perdita d’occhio; il sole che penetra tra i rami; “Gelo e sole, giorno meraviglioso”, la famosa frase di Puškin scolpita nel cuore di ogni russo.

E’ un panorama ben diverso da quello a cui mi sono abituata in mesi di vita moscovita, nella città più grande d’Europa, con le sue strade a sei corsie e il traffico a ogni ora del giorno. Mi trovo ad Akademgorodok, cittadina universitaria e scientifica sorta qualche decennio fa come parte di Novosibirsk. Sono in Siberia.
Un aereo da Mosca impiega quattro ore per arrivare qui (più che per arrivare a Milano): quattro ore di volo verso est, verso le steppe dell’Asia, a cui si sommano le quattro ore di fuso orario in avanti. All’arrivo all’aeroporto Tolmačevo – otto ore più tardi – si è sempre nello stesso Paese ma in un diverso continente, non più in Europa ma quasi al confine tra Kazakhstan e Mongolia; poco più a sud è già Cina.
Novosibirsk, in realtà, è tutt’altro che un paesello sperduto nelle steppe: centro amministrativo dell’omonima oblast’ e dell’intero circondario federale della Siberia, è la terza città della Russia per numero di abitanti, dopo la capitale e San Pietroburgo. Una città prevalentemente industriale, fatta di grigi palazzoni di epoca sovietica e cresciuta nel secolo scorso anche per il fatto di trovarsi lungo il tracciato della linea ferroviaria Transiberiana.
Akademgorodok – letteralmente “cittadina accademica”, a 30 chilometri dal centro della città – è invece un centro di studio e ricerca in ambito scientifico fondato nel 1957 e divenuto, nel corso dei decenni, una vera e propria cittadina con qualche decina di migliaia di abitanti e una propria identità, pur essendo comunque ancora parte della grande Novosibirsk. Qui sono attivi laboratori, centri di ricerca e di sviluppo, università (la NGU, l’Università Statale di Novosibirsk) e istituti, tra i leader a livello mondiale in settori quali la fisica nucleare, l’astronomia e le scienze naturali. È proprio qui che mi fermo per qualche giorno, alloggiando come ospite nell’obščežitie (il dormitorio per studenti) della NGU.

A dominare il paesaggio di Akademgorodok non sono i grigi palazzoni sovietici di Novosibirsk ma i boschi di betulle e di conifere. Siamo a inizio novembre, la neve è già piuttosto alta e, se al mio arrivo in terra siberiana la temperatura è ancora relativamente alta e piacevole (soli 4 gradi sotto lo zero), nel giro di poche ore un’ondata di freddo la fa precipitare fino a -23 gradi.
Nulla impedisce però una passeggiata nei boschetti che separano le varie zone della cittadina, boschi che sono solo una pallida immagine delle immense foreste siberiane il cui limitare dista solo qualche chilometro dal punto in cui mi trovo. Qui, a fare contrasto con la neve, alcune bacche rosso vivo, forse gli unici frutti in grado di sopravvivere a queste condizioni climatiche.

Di non trovarsi più in Europa lo si capisce, prima che dalla propria posizione segnalata su Google Maps, da piccoli dettagli quotidiani. Innanzitutto, le macchine: in tutta la Russia la guida è come in Italia, cioè con il volante a sinistra e la vettura sulla carreggiata destra della strada. Il taxi su cui salgo in aeroporto (così come moltissime altre vetture viste o usate durante la mia permanenza) ha però il volante sull’altro lato, come nel Regno Unito. Il motivo è pratico e semplice: tra i Paesi del mondo in cui sui usano macchine di questo tipo c’è anche in Giappone e per i concessionari siberiani è molto più conveniente importare automobili da lì piuttosto che dall’Europa, troppo distante. Pazienza, quindi, se le consuetudini di guida in Russia prevedrebbero automobili sul modello europeo; l’importante è trovare la via più economica.
Un altro dettaglio è legato al cibo: se a Mosca a farla da padrone nel settore dei ristoranti etnici è sicuramente la cucina georgiana (ingiustamente poco conosciuta in Italia ma molto diffusa nella vicina parte europea della Russia), qui è più facile incontrare ristoranti che servano specialità mongole, kazake o uzbeke. Non più khachapuri (piatto nazionale georgiano, consistente in una focaccia con formaggio e, spesso, un uovo), quindi, ma plov (riso uzbeko con spezie e carne di agnello), mantie buuzi(due tipi di ravioli molto diffusi, rispettivamente, in Kazakhstan e Mongolia).
Da secoli intellettuali russi – e non solo – discutono sull’appartenenza della Russia all’Europa o all’Asia. La verità, come spesso accade, probabilmente sta nel mezzo: la Russia non appartiene a nessuna ma è figlia di entrambe, e porta in sé i segni e l’eredità della grande storia dell’Eurasia.
Il centro dell’Eurasia è proprio dove si trova Novosibirsk, diventata con il tempo un importante snodo delle comunicazioni tra Oriente e Occidente. Alla stazione ferroviaria il tabellone delle partenze e degli arrivi segna treni da e per Mosca (che dista tre giorni di viaggio, senza soste) ma anche per Vladivostok (sulla costa russa del Pacifico) e Pechino. E se solitamente sono i fiumi della Russia europea a essere più conosciuti in Occidente (il Volga e il Don, giusto per citarne un paio), in realtà sono quelli della parte asiatica a imporsi per la loro lunghezza; basti pensare che ben quattro dei dieci fiumi più lunghi del mondo si trovano proprio in Siberia. Uno di questi è l’Ob’, che scorre anche a Novosibirsk e che mi si presenta non ancora del tutto ghiacciato, nonostante il freddo.
Tra i record della città c’è anche quello per il teatro più grande di Russia. Il Teatro dell’opera e del balletto di Novosibirsk detiene infatti questo primato, battendo in tal senso il teatro “grande” per eccellenza: il Bolshoj di Mosca (la parola “bol’šoj”, infatti, in russo ha proprio questo significato) e guadagnandosi il soprannome di “Colosseo siberiano”. Il teatro non solo costituisce una delle (poche) attrazioni della città in ambito culturale ma ne segna in qualche modo anche il centro: sorge infatti sulla piazza principale della città, chiamata – senza molta fantasia – “piazza Lenin” e dominata ancora oggi da una statua del leader sovietico.

Le mie peregrinazioni siberiane non si limitano però a Novosibirsk e mi portano anche nella “vicina” Tomsk (che dista solo cinque ore di treno, cioè molto vicino per la concezione russa di distanza). Decisamente più piccola della prima, più antica e anche più bella esteticamente, Tomsk è famosa per essere “capitale storica” della Siberia e per le sue antiche casette nella tipica architettura in legno.

Le giornate di sole splendente invogliano a passare più tempo possibile all’aperto, se non fosse che il termometro segna -27 gradi e, per quanti siano gli strati che ci si mette addosso, dopo un po’ il freddo comunque lo si sente. Un freddo che ancora non è per nulla estremo (“A gennaio si arriva ai -40, adesso si può ancora fare il bagno nel fiume”, mi dicono) ma a cui un italiano generalmente non è molto abituato.

Il peggio è quando ci si deve togliere i guanti per scattare una fotografia, controllare le mappe o usare in qualsiasi altro modo il cellulare -perché sì, nel mio zelo organizzativo precedente alla partenza per la Russia ho trascurato un dettaglio essenziale: un paio di guanti touch sarebbero stati un acquisto intelligente, permettendomi di usare vari dispositivi mantenendo la mani protette. In tali situazioni imparo che il mio limite massimo di resistenza a mani scoperte è di poco più di un minuto, dopodiché inizio a non riuscire più a muovere le dita, fino ad avvertire – ancora qualche decina di secondi più tardi – una sensazione che non è più freddo, ma è già diventata vero e proprio dolore.

Altro dettaglio interessante o perlopiù sconosciuto in Italia nella sua grande diffusione sono le targhette appese ai muri degli edifici con la scritta “Attenzione! Caduta neve!”; un fenomeno certamente non solo siberiano, ma che nel giro di qualche settimana sarebbe apparso anche a Mosca e in altre città dal clima relativamente più mite. Chiunque abbia visitato la Russia in inverno lo sa: camminando sui marciapiedi o comunque vicino ai muri degli edifici si rischia di essere investiti da un improvviso ammasso di neve caduta dal tetto o, peggio, dalle famigerate sosul’ki, le stalattiti di ghiaccio che si staccano da cornicioni e grondaie.
Forse venire in Siberia in un altro periodo dell’anno mi avrebbe risparmiato le avversità del clima, ma di certo non mi avrebbe nemmeno offerto la possibilità di ammirare lo spettacolo delle betulle innevate, con il loro fusto bianco e luminoso che si confonde con la neve. Non a caso presso diversi popoli dell’Asia Centrale la betulla rappresenta l’Albero Cosmico ed è considerato portatore di luce.

Allo stesso modo sarei stata privata dello spettacolo delle distese ghiacciate che si estendono per migliaia di chilometri. Anche se è il “Sole e gelo, giorno meraviglioso” di Puškin a essere scolpito nel cuore di ogni russo, questo grande poeta dell’Ottocento, a voler essere precisi, le steppe siberiane non le vide mai. I versi che forse più di altri risuonano in testa davanti alla vista delle distese ghiacciate sono quelli di un altro grande poeta russo, Osip Mandel’štam:

“Еще не умер ты, еще ты не один,
Покуда с нищенкой-подругой
Ты наслаждаешься величием равнин
И мглой, и холодом, и вьюгой.
[…] Несчастлив тот, кого, как тень его,
Пугает лай и ветер косит,
И беден тот, кто сам полуживой
У тени милостыню просит.”

“Ancora non sei morto, ancora non sei solo

Finché con l’amica-mendicante

tu godi della grandezza delle lande

della caligine, del freddo e della bufera.

[…] Infelice colui che, come la sua ombra,

Il latrato spaventa e il vento taglia,

E povero colui che, egli stesso semi-vivo,

All’ombra chiede carità”.

 Lande fredde e desolate, ma in cui si nasconde più vita e bellezza di quanto non si creda.

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