Tradurre l’ineffabile: Ivan Denisovič

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“Questo racconto deve essere letto e imparato a memoria da ognuno dei duecento milioni di cittadini dell’Unione Sovietica”. Con queste parole la grandissima poetessa Anna Achmatova accolse nel 1962 la pubblicazione della povest‘ (racconto lungo) di Aleksandr Solženicyn Una giornata di Ivan Denisovič sulla rivista letteraria “Novij Mir”. Non tanto diversa fu la reazione di ammirato stupore espressa dal giornalista e scrittore Vasilij Grossman: “Ma dove siamo stati tutti questi anni? Come può uno scrittore del genere uscire dal fetore dal lager?”

Già queste due brevi testimonianze sono sufficienti per rendere l’idea della forza dirompente con cui il racconto di Solženicyn, scrittore ancora sconosciuto all’epoca, stravolse il corso non solo della letteratura russa ma anche della politica culturale dell’Unione Sovietica. Fu infatti quest’opera a rompere il tabù sul mondo dei lager, realtà di cui tutti erano a conoscenza ma di cui fin dagli anni Trenta era proibito parlare apertamente. L’opinione pubblica e le autorità – sempre attente alla letteratura e pronte a intervenire al minimo accenno di distacco dalla linea ufficiale del realismo socialista – ne furono profondamente scosse; come suggerisce la professoressa Maurizia Calusio (Università Cattolica del Sacro Cuore) si può dunque dividere la storia dell’URSS tra un “prima Ivan Denisovič” e “dopo Ivan Denisovič“.
Come è possibile, dunque, che un testo che descrive una giornata di un detenuto in un lager del Kazachstan potè arrivare fino alla pubblicazione? Essa fu sicuramente avvantaggiata dalla moderata e relativa apertura promossa in quel periodo – che non a caso ha iniziato poi a essere definito “Disgelo” – dal nuovo leader Nikita Chrušëv e inserita nel più ampio programma di destalinizzazione del Paese. L’abile direttore di “Novij Mir” Andrej Tvardoskij seppe sfruttare abilmente queste nuove circostanze: fece in modo di far leggere il manoscritto direttamente al Segretario di Partito Nikita Sergeevič piuttosto che sottoporlo prima al vaglio della censura, dal momento che sapeva benissimo che il testo non avrebbe mai passato questo filtro – rappresentava infatti una novità troppo pericolosa – e decise quindi di rivolgersi direttamente a Chrušëv. Lo stesso Solženicyn aveva saputo creare un’opera che si accomodasse in qualche modo ai dettami della linea ufficiale: Ivan Denisovič, infatti, parla sì del mondo dei lager, ma lo fa senza alcuna critca esplicita e, soprattutto, dando risalto al valore del lavoro come elemento nobilitante per l’uomo – seppur in maniera ovviamente diversa dal modo in cui questo tema era propagandato dai quadri di Partito. Un’ulteriore sensibilità dell’autore per rendere il testo più gradito alla censura fu quella di intervenire sul piano della lingua, omettendo, per esempio, tutte le espressioni gergali che caratterizzavano il tipico linguaggio parlato all’interno dei lager. Si trattava di un linguaggio che descriveva un mondo in cui i cinquantotto convivevano con gli accerchiati e ogni giorno misuravano la propria vita con la norma, sperando in un Kant – ben diverso, quindi, dal “sovietichese” imposto dalle autorità.

Tali elementi riemersero solo in stesure successive e più libere; tra queste, quella del 1980 su cui si è basata la traduzione per questa nuova edizione Einaudi. Le difficoltà di traduzione derivate da questa ricchezza lessicale sono facilmente immaginabili: come poter rendere il tipico slang del gulag, per cui nel patrimonio culturale italiano non esistono né traducenti esatti né, tanto meno, realtà riconducibili a quelle dei lager sovietici? La strategia traduttiva per cui si è optato è stata precisata dalla stessa traduttrice Ornella Discacciati, intervenuta alla presentazione dell’edizione svoltasi lunedì 16 ottobre presso la Biblioteca Sormani di Milano: a differenza di altre edizioni si è scelto di “dare a questa esperienza tragica la possibilità di esprimersi nel suo modo”, lasciando quindi i termini gergali nell’originale russo e corredandoli, se necessario, con qualche nota esplicativa. È così che si incontra, per esempio, l’intraducibile dochodljaga: sostantivo con cui si indicava il detenuto ormai stremato e arrivato alla fine delle proprie capacità di sopravvivere all’inferno del gulag.

Durante l’evento di presentazione, a cui hanno partecipato anche la giornalista Anna Zafesova (La Stampa) e la professoressa Calusio, sono stati introdotti inoltre gli altri due racconti inclusi in questa edizione – La casa di Matrëna e Accadde alla stazione di Kočetovka – ed è stato sollevato l’eterno dibattito che vede Solženicyn contrapposto a un altro grande esponente della letteratura concentrazionaria: Varlam Šalamov. Perché l’opera di quest’ultimo – I racconti della Kolyma, sempre pubblicata da Einaudi in versione integrale con la traduzione di Sergio Rapetti – non ebbe la stessa fortunata sorte di Ivan Denisovič e non vide mai la luce in URSS? I due scrittori sono separati da una concezione della vita profondamente diversa e quella di Solženicyn – che crede ancora che salvezza e bontà siano possibili nell’ “arcipelago” del gulag e non depreca in toto il lavoro – era, a differenza di quella di Šalamov, più accettabile dagli organi di censura. Anche oggi nella Russia del 2017 Solženicyn gode di maggiore fortuna rispetto a Šalamov: alle autorità che rigettano tutto ciò che non presenti una visione gloriosa del passato, Ivan Denisovič appare un compromesso accetabile e viene per questo inserito nei programmi obbligatori della scuola media. Non così per Šalamov, i cui Racconti della Kolyma sono del tutto incompatibili con la riabilitazione della figura di Stalin che ora – bisogna prenderne atto – è in corso.

Entrambi gli autori rimangono comunque due illustri esponenti della letteratura russa e, come ha ricordato anche la professoressa Calusio, possono essere considerati “il Tolstoj e Dostoevskij del Novecento”: profondamente diversi ma ugualmente geniali. Il che non fa che confermare quanto la lagernaja proza, la letteratura concentrazionaria, sia di fondamentale importanza per comprendere quanto successo in Unione Sovietica nel secolo scorso e quanto sta avvenendo in Russia ancora oggi.

 

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