Gli esperimenti di Federico II tra storia e leggenda

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Sono molte le grandi personalità della storia che, non paghe di aver già dato grande mostra di sé ai propri contemporanei, continuano ad esercitare un fascino inesauribile anche su noi moderni. Tra queste un posto di spicco occupa di diritto Federico II di Svevia. Figlio di Enrico VI di Hohenstaufen (e dunque nipote del Barbarossa) e di Costanza d’Altavilla, ereditò dal padre la carica di re di Germania, e in seguito quella di imperatore, e dalla famiglia della madre quella di re di Sicilia.

Scultura di Federico II sulla      facciata della porta di Capua, disegno di Séroux d’Agincourt

Stupor mundi et immutator mirabilis: in queste – ambigue – parole, diventate celebri, il benedettino Matthew Paris condensava la figura dell’imperatore, a commento della sua morte. Per J. Burkhardt egli era “il primo uomo moderno sul trono”, definizione in realtà ben poco elogiativa, vista la pessima considerazione che lo storico svizzero aveva della modernità. Ma F. Nietzsche, riprendendo la citazione, la volgeva decisamente in positivo: per il filosofo, lo Svevo era uno spirito libero, uno dei superuomini della storia, uno di “quegli incantevoli incomprensibili e impensabili, quegli uomini enigmatici, predestinati alla vittoria e alla tentazione”. Queste parole hanno consacrato l’immagine moderna di Federico: un uomo in anticipo rispetto ai propri tempi, un sovrano illuminato, tollerante, mecenate e cultore delle scienze, centro di gravità di una corte dinamica e multietnica.
E in effetti, Federico fu tutto questo. La sua residenza foggiana – l’imperatore prediligeva come sua sede il sud Italia – doveva destare grande stupore ai contemporanei: un giardino zoologico, unico in Europa, ospitava leoni, leopardi, ghepardi, cammelli, orsi, scimmie, pappagalli, un elefante e una giraffa; inoltre, cosa persino più impressionante al tempo, il personale addetto agli animali era arabo ed etiope e non mancavano, a palazzo, nemmeno suonatori neri e ballerine arabe.
Ma era la cospicua presenza di uomini di cultura che rendeva la corte fredericiana una vera “piattaforma del transfer culturale”, come la definisce Grebner: letterati e poeti del calibro Pier delle Vigne– nasce qui infatti la Scuola poetica siciliana; astronomi come Michele Scoto; dotti ebrei studiosi del Talmud (in Francia considerato eretico e bruciato sistematicamente) e traduttori di opere scientifiche dall’arabo.
La corte, d’altronde, era modellata sulla persona del sovrano, e dunque sulle sue molteplici curiosità: Federico si interessò di filosofia, astronomia, medicina, architettura, matematica: sembra abbia avuto varie discussioni con Leonardo Fibonacci, il matematico che portò i numeri arabi in Europa. Fu anche un grande appassionato di caccia col falco, che considerava una scienza: non si limitò quindi alla pratica, ma scrisse – o fece scrivere – un’opera di teoria sull’argomento, il De arte venandi cum avibus.

L’elefante di Federico II, dalla cronaca di Matthew Paris

Ma la curiosità scientifica, il voler carpire con ogni mezzo i segreti della Natura, può avere i suoi lati oscuri: il suo rovescio della medaglia. Così Salimbene di Adam, cronista contemporaneo a Federico, ci racconta di alcuni macabri esperimenti che l’imperatore avrebbe messo in atto. Il problema dell’immortalità dell’anima lo ossessionava: egli allora rinchiuse un condannato a morte in una botte di vino per verificare se, al suo decesso, l’anima uscisse dal foro; questo non avvenne, dunque la conclusione dello Svevo fu che l’anima non è immortale. Vi siete mai chiesti poi se sia meglio, per la vostra digestione, dormire o fare due passi dopo mangiato? Federico sì. Allora fece chiamare, ancora una volta, due sventurati condannati a morte: ad uno concesse, dopo pranzo, un pisolino, l’altro lo spedì a caccia. Poi, come se niente fosse, fece aprire lo stomaco ad entrambi e constatò che aveva digerito meglio quello che si era riposato.
Ma l’esperimento più inquietante dello stupor mundi è quello che fece utilizzando come cavie alcuni bambini. Una prova che si può leggere direttamente dalla penna di Salimbene:
La seconda sua stranezza fu di voler scoprire che lingua e quale idioma avessero i bambini nel crescere, se non parlavano con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dare il latte agli infanti e lasciar succhiare loro le mammelle e far loro il bagno e tenerli puliti, ma che non li vezzeggiassero in nessun modo e stessero sempre mute e silenziose davanti a loro. Intendeva arrivare a conoscere se parlavano poi la lingua ebraica, la quale era stata la prima, o il greco, il latino o l’arabo; o almeno la lingua dei genitori da cui erano nati. Tuttavia si affaticava invano: gli infanti morivano tutti, perché non potevano vivere senza gli incoraggiamenti, i gesti, la letizia del volto e le carezze delle loro balie e nutrici.
L’immagine che la nostra fantasia può produrre, quella di un tenebroso imperatore-scienziato che, per saziare la sua sete di conoscenza, chiuso in polverose biblioteche o in oscuri sotterranei e con l’aiuto di misteriosi dotti orientali, progetta i suoi esperimenti incurante delle implicazioni etiche, è certo romantica e intrigante. Ma lo storico ha il compito, non sempre semplice, di porre un freno alle fantasie e di interrogare le sue fonti.
Andiamo dunque più a fondo. Salimbene de Adam, il narratore degli episodi in questione, da buon francescano qual era risentiva naturalmente dell’influsso della propaganda papale, interessata a presentare Federico II come eretico e persecutore della Chiesa.
In effetti l’imperatore aveva pestato molti piedi ai vari papi che si erano succeduti sul soglio pontificio nella prima metà del ‘200. Lo Svevo era infatti sul trono del Sacro Romano Impero, entità politica che comprendeva il regno di Germania e l’Italia centro-settentrionale (fino alla Toscana e a parte dell’Emilia) e re di Sicilia (cioè di tutto il sud Italia, a partire dalla Campania e dall’Abruzzo): schiacciato tra queste due grandi entità politiche c’era proprio lo Stato della Chiesa e la peggior cosa che potesse accadere era un sovrano che riunisse i due regni, cosa che Federico II aveva intenzione di fare. Così i rapporti tra papato e imperatore furono sempre sul piede di guerra e tutta l’Italia risentì della situazione, dividendosi tra Guelfi (sostenitori del Papa) e Ghibellini (che invece appoggiavano l’Imperatore). Lo Svevo aveva tentato di tenersi buoni i pontefici promettendo crociate in Terra Santa, ma un po’ per sfortuna – il primo tentativo fallì sul nascere per una pestilenza –, un po’ per i metodi non convenzionali del sovrano – che preferì ottenere Gerusalemme accordandosi col colto sultano al-Malik al-Kamil, che stimava intellettualmente, invece che col sangue – non ricavò altro che alimentare l’insofferenza di Roma nei suoi confronti.
Così Federico non solo si guadagnò ben tre scomuniche, ma fu oggetto, specie negli ultimi anni del suo regno, di una spietata propaganda papale, effettuata a colpi di libelli apocalittici che lo identificavano come l’Anticristo o come un suo precursore. Era ben viva infatti, in quegli anni, l’attesa dell’Apocalisse profetizzato nel Vangelo di Giovanni, tanto più che si stavano diffondendo le teorie dell’abate Gioacchino da Fiore, secondo il quale era imminente la fine della seconda età della storia, quella del Figlio (la prima era stata quella del Padre), al cui termine avrebbe regnato l’Anticristo, un sovrano secolare che avrebbe castigato la Chiesa corrotta e dopo la quale sarebbe iniziata l’età dello Spirito.
Salimbene era inserito in questo clima ed era perfettamente al corrente delle teorie gioachimite. L’opinione più diffusa tra gli storici è quindi che, prendendo spunto da esperimenti che Federico effettivamente faceva – altre fonti ci attestano per esempio ricerche di ornitologia sull’alimentazione degli avvoltoi o altre atte a perfezionare il cappuccio dei falchi da caccia – il cronista se ne sia inventati di sana pianta altri che concorressero ad alimentare la fama di ateo ed eretico che la Chiesa si sforzava di affibbiare allo Svevo.

Il drago apocalittico del ‘Liber figurarum’ di Gioacchino da Fiore

Ma lo stesso Salimbene non riesce, nella sua opera, a dare un’immagine solo negativa dell’imperatore: dichiara infatti di averlo conosciuto e stimato, ne elenca le virtù positive e conclude dicendo che “se solo fosse stato cristiano e avesse amato Dio, la Chiesa e l’anima sua, ci sarebbero stati, nel mondo, pochi uomini pari a lui nel governare”. Lo stesso Dante, che pur colloca Federico all’Inferno tra gli eretici, non riesce a nascondere la sua ammirazione, quando lo definisce “terzo vento di Soave” (Svevia), cioè il terzo svevo che condizionò i destini d’Italia e “l’ultima possanza”.
Anche il sommo poeta ci testimonia quindi come non sia possibile dare un’immagine univoca di una figura così complessa come quella di Federico II di Svevia e di come, forse, la sua cifra stia proprio nell’ambiguità.
Un’ambiguità che, ancora oggi, ne mantiene inalterato il fascino.

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