Macchine come me

Pubblicato il Pubblicato in Critica, Letteratura

Il 1982 è un anno speciale per Ian McEwan: l’anno in cui scoppiò il conflitto delle Falkland tra Regno Unito e Argentina; l’anno in cui Blade Runner (Ridley Scott) scosse gli schermi cinematografici di tutto il mondo; ma soprattutto l’anno in cui, fittiziamente, Charlie Friend – disoccupato di fatto, sedicente giocatore d’azzardo in borsa – scopre, nei sobborghi di Londra, di essere innamorato della sua vicina Miranda, brillante studentessa di Storia. In questo 1982 fittizio i Replicanti immaginati dall’autore culto di fantascienza Philip K. Dick esistono davvero, si chiamano tutti o Adamo o Eva e possono essere comprati e usati come compagni nella vita di tutti i giorni. È l’anno in cui Alan Turing è sopravvissuto alla caccia alle streghe puritana del secolo scorso, e sta proficuamente portando avanti le sue ricerche sul machine learning e sull’intelligenza artificiale.

Questo lo scenario su cui si apre l’ultimo romanzo dello scrittore inglese, Macchine come me (sottotitolo: E persone come te), edito in Italia per i Supercoralli Einaudi. Narrata in prima persona dal protagonista, l’opera tocca temi cari e tipici alla scrittura di McEwan come l’amore, il desiderio, la paura, e, soprattutto, il significato dell’essere “umani” in un tempo sempre più governato dall’interconnessione indiretta delle macchine. Domande già sentite a cui l’autore cerca però, con il suo consueto afflato umanistico, di dare una risposta ragionata e personale, costruendo una vicenda che sappia essere esemplare della sua posizione in merito.

Voce interiore moderna per quanto non modernista, Charlie è l’uomo medio del suo – ovvero del nostro – tempo: vive alla giornata, rifiuta di occupare una posizione istituzionalizzata all’interno della società, cerca nell’amore per Miranda una via di fuga alla maledizione dell’Ego. Segue la politica e i movimenti delle masse con sguardo annoiato, desiderando solo potersi stabilire economicamente in modo da disconnettersi definitivamente dal mondo esteriore. I suoi pensieri viaggiano sull’onda del sentito dire o del senso comune più spiccio. Charlie decide un giorno, quasi per noia, di comprarsi un Adamo, il quale, ben presto, saprà metterlo di fronte a tutte le contraddizioni e le debolezze del genere umano, specie dotata di intelligenza razionale ma incapace di seguirla nella vita di tutti i giorni.

La mente perfetta di una macchina non può infatti tollerare, o forse non riesce a comprendere, tutti i difetti di programmazione delle “vere” persone, quelle che dichiarano amore eterno per poi tradire il partner, quelle che pretendono giustizia e la vogliono esercitare ad libitum; o quelle che vogliono creare nuova vita solo per poterne essere in controllo. I replicanti di McEwan sono un concentrato di Super-Io, e gli umani se ne sentono minacciati solo nella misura in cui si sentono a loro inferiori.

McEwan mette così amichevolmente alla berlina se stesso e i suoi lettori, coinvolgendoli in un gioco di specchi in cui ognuno saprà rispecchiarsi sia in Charlie che in Adam, demistificando alcuni a priori che troppo spesso conducono ad alcune affermazioni generaliste su entrambe le parti in causa. Un messaggio chiaro, quello dello scrittore, che prende il suo pubblico per mano e lo conduce attraverso la narrazione passo dopo passo, a costo persino di risultare ovvio, banale, ripetitivo.

Perché un po’ ovvio, banale e ripetitivo questo romanzo è. Come un esperimento di ridondanza letteraria, Macchine come me – proprio come il suo protagonista Charlie – funziona solo affidandosi ad argomenti già proposti e posizioni più volte prese, mettendo insieme un caleidoscopico rito di comprensione per differenza tra il “noi” e il mistero insondabile e affascinante del “loro”. Il risultato è un fiacco riassunto della presente situazione socio-tecnico-ideologico-politica (si parla pure della Brexit) con l’aggiunta di una vaga vena di semplicistico paternalismo. Il sogno personale di McEwan manca d’incisività, e la critica che si propone di portare avanti rimane sciapa, confinata nella mente del suo creatore.

Se dunque, come lo stesso Turing afferma nel corso del libro, “si potrebbero raccontare simili storie di macchine tristi”, rimane oscura la motivazione dietro a questo ouroboros narrativo: così come tutti i replicanti sono uguali e cristallini, così McEwan sembra aver fatto della sua scrittura un fatto di composizione meccanica. Che è proprio ciò che per tutto il corso di Macchine come me ci è stato identificato come non-umano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

WordPress spam blocked by CleanTalk.