Joker: una risata dall’abisso della città

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Il seguente articolo deve essere letto più come un invito al cinema piuttosto che un commento per chi ha già visto il film, pertanto non contiene spoilers.

Cosa succede quando un malato di mente incontra una società che lo abbandona e lo tratta come spazzatura? La risposta non è semplice né rassicurante.

Un proiettile, che squarcia i nostri pensieri. Questa non sarà una classica recensione cinematografica, non vi parlerò della performance da Oscar di Phoenix, dell’unicità e del coraggio dei temi trattati in questo film, ne’ della stupenda fotografia noir che lo caratterizza. Oggi cercherò con uno sguardo clinico di capire chi è l’uomo che sta dietro il sorriso di Joker.

Chi è Arthur fleck? Semplicemente un caso clinico degno del lettino di Freud?Arthur è la peste a Tebe. Arthur è il figlio rifiutato di una Gotham City degli anni 80 oscura e sporca, scissa e schizofrenica come la mente del suo protagonista. Il baratro che separa ricchi e poveri, vincenti e perdenti è sempre più ampio e Todd Philips riesce a trasportarci nelle atmosfere kafkiane dei condomini fatiscenti di questa metropoli, nelle sue strade e sui vagoni con luci intermittenti. Il popolo di Gotham soffre eppure nessuno ne parla: la gente sembra lobotomizzata nei comizi televisivi del candidato sindaco Thomas Wayne e nei programmi comici spensierati del presentatore Murray. Un piccolo paradiso squallido a portata di telecomando: la Gotham di Philips è un perfetto specchio opaco delle nostre metropoli contemporanee, dove nuovi schermi hanno sostituito la nostalgia delle vecchie tv a tubo catodico.

Se Gotham avesse una mente, Arthur, con la sua esile figura consumata dalla malattia e dalla povertà, ne sarebbe l’oscuro rimosso, l’ombra: ciò che doveva restare tra la spazzatura e che a un certo punto intacca come un’epidemia le strade luminose di una città alienata e ne sfonderà il sonnolento schermo, letteralmente. Durante tutta la pellicola noi spettatori restiamo sullo scomodo confine tra la pietà, il terrore, il disgusto e la risata, un indecifrabile miscuglio di emozioni che ogni vera opera tragica dovrebbe suscitare secondo il vecchio parere Aristotelico. Questo film ci divora dentro perché Arthur Fleck è una parte di noi che preferivamo non rincontrare sullo schermo.

Ritorniamo alla domanda: Arthur è quella volta in cui da bambini ci siamo sentiti soli al mondo; è il compagno di banco sfigato e fragile che prendevamo in giro per sentirci normali; il ragazzino impacciato che eravamo e che abbiamo nascosto sotto anni di presunta maturità. Arthur è un uomo solo che vive con una madre che fin da piccolo lo ha cresciuto con una missione in cui lui si rispecchia: portare gioia e risate nel mondo! Missione che implicitamente nasconde il dolore di un bambino cresciuto per alleviare la disperazione e la solitudine di una madre single, ora ormai avanti con gli anni. Un uomo del sottosuolo di Gotham questo Arthur con il sogno di diventare un comico, ed è nella sua risata grottesca che si consuma la sua stessa tragedia. Egli ride compulsivamente per un disturbo neurologico di origine traumatica, ride senza poter smettere quando ha paura, ha ansia, ha rabbia: tutte le sue emozioni si perdono soffocate in una risata.

Condannato da innocente ad un ghigno ipocrita che sembra ricalcare il monito dei potenti e dei benestanti di Gotham impersonati dal potente Thomas Wayne: “Tutto va bene, tutto deve andare bene”. Ovvero “Chi muore di fame deve stare nei quartieri colmi di immondizia e disagio sociale, chi sorride e vuole divertirsi ha il diritto per una sera a cinque minuti di gloria in televisione!” Arthur vorrebbe solo far ridere per scelta, per una volta almeno, con una delle sue battute; invece la gente ride perché lo trova un pagliaccio, un poveraccio. Arthur è un freak come tanti che popola Gotham city, non è diverso dai mendicanti mutilati o dagli immigrati che incontriamo ogni giorno ad esempio per Milano, spettri di stracci che ci turbano per il tempo della prossima fermata. Durante il film vediamo la discesa nella pazzia di un uomo che nient’altro chiede se non essere visto, riconosciuto, amato, Arthur vorrebbe solo chiarezza sulla sua vita, sulle sue origini: essere considerato un uomo, un figlio, non un pagliaccio da circo rimpiazzabile, non un fenomeno da baraccone di cui ridere o un fantasma suburbano di cui ignorare la morte.

Sarà Gotham, come in un sadico esperimento sociale, a tirare fuori da Arthur Fleck il Joker, a furia di calci e pugni, di umiliazioni e perdite.  Dopo aver sradicato ogni legame con il passato l’uomo distrutto farà spazio sul palco al demone che sorride. La condanna di una risata compulsiva diventerà destino: diventerà benedizione. 

Venite in sala gente e assisterete ad una tragedia troppo umana che nel sangue si fa commedia, soffrirete con Arthur, vi perderete nella sua risata soffocante cercando di attraversare lo schermo per chiedergli cosa stia provando mentre ride eppure dentro sembra morire. Sedetevi comodi e insieme ad Arthur vi trasformerete. Venite in sala gente e guardate dentro l’abisso di chi ritrova e riconquista sé stesso trasformando una maschera in volto. 

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