Scrivere la lontananza: i Racconti di Walter Benjamin

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Tra gli autori del Novecento che continuano a riscuotere interesse tra pubblico e editori un posto di rilievo va certamente a Walter Benjamin. Solo nel 2019 sono stati dati alle stampe Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940) per Castelvecchi, Critica della teologia politica per Quodlibet, l’edizione integrale de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica in Donzelli, Scritti autobiografici per Neri Pozza, ancora L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica e altri scritti in SE e i Racconti per Einaudi che nel 2018 ha anche editato Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin.

Già questa piccola carrellata rivela quello che è il punto di forza di Benjamin e ne spiega coerentemente la costante rilettura contemporanea: la sua riflessione ha toccato più punti dello spirito umano e si è riflessa in una molteplicità di generi e forme. Abbiamo i più acuti saggi filosofici – il cui pensiero è frutto di una convergenza tra eterogenee tradizioni, dal marxismo al romanticismo, affrontando il neokantismo e i risultati ottenuti dalla Scuola di Francoforte -, verbali di esperimenti di hashish, recensioni, studi sui sogni, profondi testi di critica letteraria – che risentono delle suggestioni delle avanguardie artistiche europee -, saggi autobiografici e anche narrazioni dal giusto profumo. Proprio la sua natura poliedrica, di testimone a tutto tondo, ha garantito a Walter Benjamin un potere di attenzione fortissimo su lettori e interpreti altrettanto ibridi, provenienti da percorsi e ambiti differenti. Un pubblico spesso disorientato da un autore ancora difficile da ricondurre ad un’etichetta storiografica. Ma quella di inserire Benjamin su uno scaffale è una pretesa a cui gli addetti ai lavori hanno rinunciato, preferendo presentare al pubblico quante più facce disponibili dell’autore tedesco, illuminandone man mano la produzione e studiando la feconda eredità che ha lasciato negli ambiti a cui si è dedicato.

Nei Racconti (Einaudi, 2019) emerge prepotentemente la voracità intellettuale di Benjamin, come scrittore che insieme lettore e consapevole osservatore della narrativa europea degli ultimi secoli. Benjamin è al tempo stesso critico, traduttore e scrittore: è proprio dalla presa di coscienza della decadenza dell’oralità e dell’ascolto (rieccheggiano i passi delle Considerazioni sull’opera di Leskov) che prende forma la scrittura narrativa di Benjamin. Non solo l’esercizio di un abile lettore -Proust, di cui è traduttore e recensore, è il caso emblematico- attento a scardinare meccanismi e strutture delle grandi opere letterarie, ma una vera resistenza operata con forte senso d’appartenenza e d’azione. Benjamin gioca con la forma del racconto breve, che si sovrappone a tratti con le prose poetiche che l’autore ben conosce: non dimentichiamo i lavori sui Tableau parisien di Baudelaire, da cui ha carpito la preziosa tecnica di spostare l’attenzione, con movimenti di penna naturali, dalla mise en place esteriore alle più intime dinamiche dei personaggi.

Il saggio su Leskov (1936) elabora in maniera organica suggestioni che Benjamin cura da anni, che ritroviamo sparsi nei racconti cronologicamente antecedenti.

Primo grande assioma, come chiarisce Antonio Prete -curatore dell’edizione dei Racconti Einaudi e firma della prefazione-, è la centralità del sentimento del lontano, del loin che assume nella scrittura di Benjamin le forme più delicate. Il gusto della descrizione, una tensione ritmica che sfocia nel quotidiano e nel resoconto, la tendenza a sorprendere con uno scioglimento inatteso conducono i lettori attraverso gli occhi di un viaggiatore che plana dall’alto sull’azione, facendo trasparire un’attenzione per il piacere, svagato, dell’intrattenimento. Non mancano accorgimenti ad hoc, interstizi mondani nei grandi caffè parigini e della riviera mediterranea, accanto a scene fortemente moderne come viaggi di traghetti e bolle bancarie; ma tutto sembra coperto da un’aura più forte, antica e perduta. Lontane sono le storie che i protagonisti si scambiano, insieme avvolti da un cappotto sul ponte di una motonave o intorno ad un tavolo da gioco. La tessitura dei racconti segue un preciso schema di corrispondenze (baudleriano anche questo, ça va sans dire) tra lo svolgersi delle azioni, spesso anche solo riportate da un narratore terzo, e un più grande meditare su questioni d’ordine estetico, morale, umano – senza dimenticare la dimensioni interiore che è sempre suggerita.

Frammenti come la storia di O’ Brien ne La siepe dei fichi d’India: l’irlandese abile nell’arte nei nodi che, perduta la sua collezione di maschere africane, ne ricava un’identica da ceppi intagliati con le proprie mani durante apparizioni notturne dei volti indigeni. Racconti di nomi perduti nel Tracciato sulla mobile polvere: la storia di un abile scalpellino, chiamato a sovrintendere i lavori di restauro del Duomo cittadino, e costretto dalla sua amante a inciderne il nom de guerre sul capitello della Chiesa. Il riepilogo di Schelinger sulla sua serata d’ebbrezza con l’hashish in Myslowitz -Braunschweig -Marsiglia; la notte di Capodanno di Krambacher, messo in solitaria ed ebbro a riflettere sulle occasioni perdute del vecchio anno in Il secondo Io. Trovano spazio anche righe di riflessioni sul narrare, come nel caso del racconto Il fazzoletto: “chi non si annoia mai, non sa raccontare. Senonché la noia, oggi, non ha più posto fra le cose che facciamo. Le attività che erano segretamente e intimamente legate a esse stanno morendo. Ed è per questo che si sta estinguendo anche il dono di raccontare storie: oggi non si tesse e non si fila più, non si lima e non si fanno più altri lavori manuali mentre le si ascolta”.

 Una coralità che ricorda le storie dei focolari, dei miti e delle leggende. E del resto sappiamo dal saggio su Leskov che per Benjamin il primo narratore indiscusso è quello di fiabe, per la sua abilità di non far spegnere quel tocco di fantastico, di alludere ancora a quell’infantile richiamo all’incantamento. E erede della fiaba non può che essere il romanzo, che detiene ancora la fiammella dell’epos antico: una scrittura che tiene vivo il senso di lontananza, sia nello spazio che nel tempo.

Non siamo di fronte ad uno di quei casi di esasperazione editoriale, a cui assistiamo spesso, per cui tutto quanto scritto da un autore di spessore ca per forza pubblicato a costo di infiocchettarlo oltre le intenzioni della penna originale; e lo dimostra il fatto che alcuni dei racconti proposti della raccolta Einaudi vanno al di là dell’esercizio estetico. Nei frammenti letterari di Benjamin siamo accerchiati da un sospetto di compiuto, dalla narrazione romanzesca, dalla finzione proposta con gli intagli al posto giusto e da un proposito di ordine che Benjamin mette in dialettica con Kafka, la cui scrittura rest un punto di continua e attenta esplorazione critica, e con tutti gli autori che ne hanno stuzzicato la brillante curiosità.

Stando alle parole di Walter Benjamin non occore più quindi ubriacarsi, di vino poesia o di virtù, ma annoiarsi. E non ci resta che augurarci allora prossimi scrittori annoiati, tediati e volenterosi di prendere in mano la penna per concederci ancora quell’odore di lontananza di cui i racconti di Benjamin sono fortemenete imperniati.

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