Le mille voci della rivoluzione

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Capisci?: questa domanda del presente al passato, del tempo al tempo, è il segreto di una propulsione perfetta per una capsula del tempo all’indietro, per una lettera destinata alla rivoluzione”: meno di tre righe ci permettono di cogliere subito il cuore di questo lavoro sulla Rivoluzione russa del 1917. Mio padre la rivoluzione (minimum fax) è infatti una capsula che si sposta continuamente tra varie epoche del passato e il presente: non un romanzo, non un resoconto storico, ma un susseguirsi di episodi legati al filo rosso (mai nota cromatica fu più appropriata) della Rivoluzione 1917.

Sono passati cento anni e qualche settimana dalla notte tra il 6 e il 7 novembre in cui i bolscevichi presero il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, in quello che sarebbe stato celebrato dalla propaganda sovietica come il momento più alto della rivoluzione.
Il libro di Davide Orecchio si inserisce perfettamente nel novero degli interventi e delle iniziative promossi in occasione di questo anniversario, con però un tratto che lo differenzia profondamente da tutti gli altri: l’autore non riflette su ciò che è successo ma, piuttosto, su ciò che sarebbe potuto succedere. Dodici capitoli raccontano dodici diverse storie di personaggi che, direttamente o indirettamente, sono stati legati alle vicende russe del 1917, presentandoli da una prospettiva insolita: non quella della storico che riporta pedissequamente i fatti avvenuti, ma quella di chi, già a conoscenza degli eventi nelle loro linee generali, prova a immaginare piuttosto cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente. Tra i personaggi che popolano il libro troviamo per esempio Trockij ancora vivo nel 1956 che, dalla sua casa in Messico, assiste ai tragici eventi di Budapest e ripensa a come tutto aveva avuto inizio quasi quarant’anni prima; troviamo un’altrettanto viva Rosa Luxemburg che l’8 marzo del 1947 scrive una lettera a tutti i cittadini sovietici; o ancora l’inquietante figura di Iosif Adolf Vissarionovič che dà ordini ai “čekisti della Gestapo” e riunisce così in sè due figure fondamentali per la storia del Novecento, sulla cui possibile sovrapposizione si è a lungo dibattuto e a lungo si continuerà a farlo.
Una rivoluzione, quindi, esplorata in tutte le sue sfaccettature, dentro e fuori dai confini della Russia, oltre le mera successione cronologica della storia. Una continua alterazione degli eventi,
una pseudo-storia raccontata dal punto di vista di chi la visse in prima persona.

La narrazione dei vari episodi procede per paragrafi brevi, sfociando talvolta in un vero e proprio flusso di coscienza dei personaggi in cui spetta al lettore mettere un ordine per ricostruire il quadro d’insieme. La struttura di fondo è però molto attenta e saggiamente calibrata nei dettagli; anche l’apparente frammentarietà, data dal fatto che ogni capitolo costituisce un racconto indipendente dagli altri, viene in realtà mitigata dal ricorrere di alcune immagini che tornano e si rincorrono tra un episodio e l’altro: i fiori di garofano – così spesso associati alla rivoluzione – la personificazione degli anni, i riferimenti mitologici, una lettera che arriva o deve essere spedita.
Questo libro, infatti, non è solo una capsula del tempo: è anche una lettera, sentita e personale, a “mio padre la rivoluzione”; uno sforzo di mettersi in contatto e avere un confronto diretto proprio con questo evento, con questa figura reputata “paterna” perché cara e significativa per la propria esperienza di vita ma tuttavia conflittuale. Sembra essere proprio questa la connotazione sottesa al titolo del libro: perché altrimenti la rivoluzione verrebbe definita proprio “padre” e non “madre”? Dopotutto, il sostantivo è femminile sia in russo che in italiano, quindi l’accostamento sarebbe potuto suonare più naturale. Un titolo che, all’orecchio di qualche russista o lettore appassionato, ne suggerisce immediatamente un altro: il Mia sorella la vita di Pasternak, maggiore raccolta di testi di un poeta che ebbe a conoscere molto bene la rivoluzione e ciò che ne seguì.
Il tentativo di scrivere questa lettera alla rivoluzione – figura così complessa – tuttavia fallisce: una comunicazione con il passato sembra non essere possibile. L’autore, senza esplicitarne troppo le ragioni, dice di sentirsi prigioniero del tempo presente e di percepisce di non avere “il congegno” per stabilire un proficuo dialogo con il passato.

Rimane quindi da chiedersi cosa sia rimasto oggi della rivoluzione e se, davvero, questa comunicazione con il passato sia impossibile. La stessa Russia del 2017 costituisce un caso ambiguo e di conseguenza degno d’attenzione: le commemorazioni per il centenario della rivoluzione sono state molto limitate, di risonanza decisamente minore rispetto a quella avuta nel resto del mondo. In Russia non ci sono stati eventi significativi, dopotutto si tratta di una data importante ma per certi versi anche imbarazzante e scomoda.
Il 7 novembre si è sì tenuta una parata sulla Piazza Rossa di Mosca, per celebrare tuttavia non la rivoluzione ma la Velikaja otečestvennaja voyna (la Grande guerra patriottica, cioè la Seconda guerra mondiale) e, in modo particolare, il 7 novembre del 1941. Perfetta dimostrazione delle tendenze degli ultimi anni: ciò che veramente conta è la vittoria del 1945, non la rivoluzione del 1917 (di cui punto culminante oggi presentato sui testi scolastici russi è il febbraio, non l’ottobre, ridotto a semplice “golpe”). Lenin è una figura scomoda che si cerca in alcuni casi di tenere in secondo piano; il vero protagonista che sta prepotentemente tornando in auge e gode di una posizione di favore nella plèiade di personaggi amati dai russi è Stalin, seguito dai Romanov e da Ivan il Terribile.

Interrogarsi sulla rivoluzione del 1917 oggi non è quindi un vezzo da professori. È l’approdo (o il punto di partenza, a seconda di come lo si veda) del tentativo di viaggiare in una capsula del tempo, di mettersi in contatto con il passato per capire meglio quanto sta succedendo ancora oggi, a distanza di cento anni. Non è detto che questo tentativo riesca, ma per fortuna ci sono ancora libri che spingono a tentare l’impresa.

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