Cinquantacinque filastrocche dedicate ad altrettante bambine irriverenti, ribelli e sfrontate, amanti del proibito e del desiderio, insofferenti a qualsiasi regola o tabù e, in definitiva, affascinate da tutto ciò che riguarda il proprio corpo e l’eccitante piacere che può derivarne: sono Le bambinacce, libro scritto a quattro mani da Veronica Raimo e Marco Rossari e pubblicato da Feltrinelli nel settembre 2019. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Le bambinacce non è un capolavoro e non è neanche, senza voler puntare così in alto, molto bello; è in realtà un’opera letterariamente modesta, una raccolta di componimenti simil-poetici che di per sé non possiedono una particolare forza stilistica o lirica, in cui spesso i versi stonano in qualche forzatura alla ricerca della rima, o le idee di base appaiono talvolta facili o scontate. Non è, insomma, un’opera che rimarrà nella storia della letteratura – ma grazie a dio non tutti i libri nascono con quest’obiettivo, e d’altronde non faccio un torto a nessuno nel dirlo, dal momento che gli stessi autori hanno raccontato come l’idea de Le bambinacce sia nata quasi per caso, come un leggero divertissement per “riprendersi” dopo le ultime ben più consistenti fatiche letterarie (i romanzi Nel cuore della notte, Einaudi 2018, per Rossari e Miden, Mondadori 2018, per Raimo).
Però Le bambinacce è un libro che ha dei meriti, che se non vanno cercati nella qualità poetica risiedono invece nella sua posizione all’interno di un più ampio discorso culturale. Il merito principale – oltre a quello, immediato, di divertire, che non è comunque banale e induce spesso a perdonare qualche ingenuità di scrittura – è l’aver posto coraggiosamente al centro del testo un tema che rappresenta ancora, in letteratura come nel dibattito pubblico, un tabù: il legame tra infanzia e sessualità.
Che bambini e bambine siano agitati da pulsioni relative alla sfera sessuale fin dai primi anni di vita, lo sappiamo perlomeno da un secolo (Freud docet), eppure parlarne – soprattutto in un paese ancora esageratamente moralista come l’Italia – continua a creare disagio e “scandalo”. A dir la verità, non è solo l’accostamento dell’infanzia all’erotismo (in tutte le sue declinazioni, dalla naturale sessualità infantile e preadolescenziale a questioni più gravi come la pedofilia) a turbare, ma in generale ogni associazione che rischi di intaccare l’immagine da angioletti puri e incontaminati che i bambini devono avere agli occhi della morale comune. Insomma, dei bambini non si può parlare male – cioè, in altre parole, non si può renderli umani; ma siccome la letteratura e le arti sono da sempre i luoghi privilegiati di sovversione delle regole e dei diktat etici, i romanzi hanno già da tempo problematizzato l’immagine stereotipica di un’infanzia perfetta e senza luoghi d’ombra, scoperchiando oscurità e contraddizioni di bambini e adolescenti.
Già nel 1954, ad esempio, il futuro premio Nobel William Golding pubblica Il signore delle mosche, in cui un gruppo di bambini, rimasti soli su un’isola deserta in seguito ad un incidente aereo, per sopravvivere tentano di darsi delle regole e costruire un abbozzo di società civile: la deriva violenta, irrazionale e antisociale che prende questa società è lo specchio di un’idea fortemente pessimista di un male che alberga negli esseri umani – e quindi anche nei bambini, già crudeli ed egoisti come gli adulti che saranno destinati a diventare. L’anno dopo, il 1955, è la volta di Lolita di Vladimir Nabokov, altro romanzo in cui infanzia e purezza abitano mondi diversi, questa volta specificamente a proposito della sessualità; e certo il concetto di ninfetta, ragazzina tra i 9 e i 13 anni che dal perverso sguardo di Humbert Humbert viene caricata di valenze erotiche, è un elemento presente nel magma di ispirazioni da cui prendono vita le nostre Bambinacce. Anche in anni più vicini a noi, l’incontro tra il mondo infantile e la dimensione sessuale ha continuato ad essere linfa vitale della materia romanzesca, talvolta con connotazioni decisamente drammatiche: si pensi, per quanto riguarda la nostra letteratura, al folgorante esordio di Simona Vinci, Dei bambini non si sa niente (1997), romanzo di esplorazione infantile nei territori del sesso sullo sfondo di una squallida provincia bolognese, di gioco e trasgressione che sfocia in tragedia – il cui titolo è espressione perfetta della cecità adulta verso la complessità e le zone oscure del mondo dei bambini; o anche, fuori dall’Italia, a Niente (2000) di Janne Teller, romanzo danese divenuto all’epoca un caso internazionale, simile a quello della Vinci nella rappresentazione cruda di un universo preadolescenziale torbido e complesso, messo in crisi dall’apparente assenza di significato nella vita, e disperatamente teso alla sua ricerca – che passerà, ovviamente, anche attraverso il mistero del sesso.
Questo è il panorama concettuale in cui si inseriscono le Bambinacce della coppia Raimo/Rossari; un panorama che in realtà, se vogliamo, è indefinitamente estendibile a tutte le discipline artistiche oltre la letteratura, dalle arti figurative (vengono in mente, ad esempio, le controverse bambine lascive dipinte da Balthus, che calzano a pennello come archetipo visivo della bambinaccia) alla serialità televisiva, che soprattutto negli ultimi anni ha trattato il tema da un inedito e riuscitissimo punto di vista comico: penso alla bellissima Big Mouth (2017-in corso), serie animata Netflix che, con ironia sboccata, esilarante ma estremamente intelligente e soprattutto sincera, rappresenta l’esplosione ormonale, tipica della pubertà, di ragazzini e ragazzine delle medie che si barcamenano tra prime mestruazioni, erezioni incontrollate e l’idea fissa e inestirpabile del sesso.
In questo quadro sfaccettato, il bello delle Bambinacce è che vi si inseriscono a pieno titolo, ma allo stesso tempo marcano una differenza, una novità. Perché indubitabilmente siamo anche qui nel campo della sessualità infantile, tra bambine che, come recita la quarta di copertina, “soprattutto immagina[no] il sesso”; ma la modalità in cui queste irriverenti bambinacce vengono dipinte non è né quella drammatico/tragica à la Simona Vinci né quella apertamente comica à la Big Mouth: è, piuttosto, quella del fiabesco, dell’irreale fantastico. Le protagoniste del “canzoniere ironico-erotico” (sempre dalla quarta) di Raimo/Rossari si muovono in una dimensione indefinita e sospesa, tipica della fiaba (e infatti ogni filastrocca si apre con “C’era una bambina…”); ed è questa esenzione dalla realtà che permette loro di essere ideali, dunque slegate da ogni imposizione e da ogni tabù, libere, sfrontate, curiose, divertenti. Senza l’oppressione e il freno del mondo reale – un mondo creato dagli adulti a misura di adulti, quindi un mondo di repressione – le bambinacce vivono la loro scoperta del sesso nel segno di una gioiosa esagerazione.
C’è La bambina supersensibile, che “una mattina pigra / provò a toccarsi lì” e scoprì che “la supersensibilità / era un superpotere”; c’è La bambina che amava gli spigoli, che scopre il piacere di strusciarsi su ogni sporgenza che le capiti a tiro, perché in fondo “Chi ha bisogno del dito / per creare l’attrito, / d’acchito è più fico / spupazzarsi uno stipo”; poi La bambina che era sempre bagnata, La bambina che voleva sempre godere, e così via. Nella gran varietà di componimenti, la sessualità viene indagata in tutti i suoi angoli, anche quelli che scartano rispetto alla supposta ed arbitraria “normalità”: ci sono ad esempio bambinacce BDSM, come La bambina che voleva essere punita o La bambina che si faceva i tagli; bambinacce allegramente (e platonicamente) necrofile, come La bambina che sognava l’amore tombale; bambinacce LGBT, come La bambina che era un bambino. È chiaro che, nel farsi carico di istanze “minoritarie”, Le bambinacce assuma anche una valenza politica: il libro di Raimo e Rossari è inclusivo, i suoi personaggi stralunati e ironici urlano a gran voce il diritto di chiunque di essere sé stesso e di vivere appieno la propria personalità, i propri gusti “particolari” in fatto di sesso, l’identità di genere o l’orientamento sessuale. Ed è soprattutto, prima ancora, un libro femminista: dietro ogni bambinaccia c’è una donna, che rivendica la propria libertà, il diritto di scegliere e di disporre del proprio corpo e del proprio piacere come meglio crede, con gioia e sfrontatezza, senza preoccuparsi di giudizi e stigmi.
Ma saltare all’equivalenza “bambinaccia = donna libera”, rendendo le protagoniste nient’altro che maschere metaforiche, sarebbe un errore: la forza impertinente del libro sta proprio nel fatto che i personaggi sono bambine e bambini, che pur sguazzando nell’oceano del sesso restano ben ancorati alla loro infanzia fiabesca, creando un contrasto esplosivo. Piuttosto, le bambinacce sono un modello per le donne (ma anche gli uomini) adulti, rappresentano il sogno irrealizzabile di ciò che vorremmo essere e che, immersi nelle costrizioni sociali della vita, non possiamo: persone libere da blocchi, discipline, restrizioni mentali; capaci di godere esattamente come vogliamo e allo stesso tempo di non vergognarcene. Insomma, persone capaci di abbandonarsi senza remore, come la protagonista de La bambina e il cane nero, alle lusinghe di questo animale, che “tetro e sincero, / nobile e serio, / faceva paura / col suo imperio / e questo perché / il cane nero / era il / desiderio”.