Càpitano, a volte, incontri letterari folgoranti. A me succede, in media, a cadenza biennale: passano cioè due anni in cui leggo vari libri brutti, alcuni inutili, molti validi, pochi bellissimi; finché non arriva quel libro, il libro. L’ultimo di questi incontri è avvenuto come sempre per caso, circa un mese fa, e il libro in questione è La pura superficie, raccolta poetica edita da Donzelli nel settembre 2017. L’autore è Guido Mazzoni, professore di letteratura all’Università di Siena, saggista (ha scritto nel 2011 un’importante Teoria del romanzo) e – ora posso dirlo con convinzione – uno dei migliori poeti italiani contemporanei.
È sempre difficile definire con precisione i motivi per cui un libro ci abbagli e ci scavi dentro a tal punto da diventare, fin dalla prima lettura, irrinunciabile; è sicuramente anche una questione soggettiva, di affinità personali. E personalmente considero caratteristica dei capolavori la capacità (o meglio, il coraggio) di affermare verità scomode, di dar voce a ciò che tutti pensano ma nessuno osa dire, e di smascherare così le nostre bugie e meschinità, per dirla con Jep Gambardella – e, alla fine, di farci anche sentire in colpa, vergognare, star male mentre leggiamo.
Le poesie de La pura superficie sono quasi crudeli nel loro coraggio della verità. Con spirito analitico, Mazzoni osserva la vita; che è l’esperienza specifica dell’io poetico, certo, ma all’io poetico l’autore si rivolge talvolta in prima persona, talvolta in terza o anche in seconda, e così interviene fin da subito una pluralità universale, diventa la vita di tutti. Poi, in un sofferto percorso attraverso la presa di coscienza di verità-tabù, Mazzoni scompone e schematizza questa stessa vita, la espone e la mette a nudo con chirurgica ferocia. Ne risulta l’affresco crudo di un’esistenza che scivola via restando in superficie, che galleggia nella vacuità e nella sterilità dei rapporti, che guarda scorrere la Storia mentre rimane confinata nel suo recinto di banalità: riprendendo il riferimento sorrentiniano, una vita “devastata”, proprio come quella dei personaggi che popolano La grande bellezza.
Ma quali sono queste verità assolute, impronunciabili per la morale comune, ma che ci riguardano da molto vicino? La prima, la più forte: ognuno è davvero interessato solo a sé stesso, non ci interessa in fondo nulla degli altri; o meglio, ad un livello più profondo: ognuno in definitiva percepisce solo la propria esistenza come vera, gli altri non esistono, sono fantasmi, immagini su uno schermo, parole che li significano.
Spesso nei vostri volti io vedo una distanza pura / un’esteriorità assoluta
Poi la cena finisce e si apre quel momento in cui, dopo i saluti, guardando le case, le proprie scarpe o i cassonetti del vetro, si capisce che gli altri non ci riguardano o non ci interessano.
L’aveva già detto De Andrè che “per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”; l’aveva detto, soprattutto, Fernando Pessoa in una delle pagine più straordinarie del suo Libro dell’inquietudine:
Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com’è che esista altra gente, com’è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l’unica possibile. Capisco che colui che sta di fronte a me e che mi parla con parole uguali alle mie, o fa dei gesti analoghi a quelli che io faccio o potrei fare, sia in qualche modo un mio simile. Eppure mi succede la stessa cosa con le figure delle illustrazioni che sogno, con i personaggi di romanzo che leggo, con le persone da dramma che si avvicendano sul palcoscenico attraverso gli attori che le interpretano.
Credo che nessuno ammetta davvero la reale esistenza di un’altra persona. Può ammettere che tale persona sia viva, che pensi e senta come lui: eppure ci sarà sempre un ineffabile elemento di differenza, uno scarto materializzato. […] Non ho vergogna di avere tali impressioni, perché ho capito che tutti noi abbiamo impressioni simili.
Ma Mazzoni, rispetto all’atteggiamento speculativo di Pessoa, ha una voce più rassegnata, come se la presa di coscienza dell’incolmabile estraneità tra l’io e gli altri fosse in lui definitiva e ineluttabile; del resto, questa è un’idea radicata nella sua poetica: già nel precedente I mondi (2010) scriveva che “basta allontanarsi per un istante dalla finzione che ci tiene insieme perché la vita degli altri appaia interamente immotivata”.
Di conseguenza, ne La pura superficie i rapporti con gli altri non si danno mai autentici, ma solo mediati, artificiali – l’unico rapporto autentico si può dare con noi stessi, e neanche in modo completo (ad esempio “chi dice io […] scopre di avere un volto solo nelle foto”). Non a caso Mazzoni usa insistentemente il verbo “schermare/schermarsi”: ciascuna persona si fa schermo, ha per noi la stessa consistenza di un grumo di pixel sul monitor, non possiamo capirla davvero, non percepiamo i suoi pensieri e le sue emozioni.
Così, l’inautenticità e il disinteresse infettano ogni relazione, a partire da quelle sentimentali: “Questa persona non significa nulla per te. La penetri per inerzia, / per la logica della serata”; il sesso è, terribilmente, “un atto […] che è sempre esposto allo sguardo di un altro e che, come tale, è sempre opaco, sempre innaturale”. Gli amici non sono amici ma, in modo desolante, “un gruppo di persone che per abitudine chiama amici”; un figlio è “un essere che ha generato, è un essere che dovrà amare per sempre avendone pietà, avendone paura”.
Questo panorama relazionale di pura incomprensione – di pura superficie, appunto – è connaturato, inevitabilmente, al mondo occidentale contemporaneo (forse ne è il frutto?), che irrompe prepotentemente nella poesia di Mazzoni con i suoi simboli e le sue ossessioni. Leggiamo di video pornografici, di autobus e metropolitane, di Isis, G8 e 11 Settembre, in un caleidoscopio di oggetti ed eventi che scandiscono la vita del soggetto, ma con cui questi non può davvero entrare in contatto. Nemmeno con gli oggetti, nemmeno con la Storia si instaura una comunicazione, se non – ed ecco l’altra verità inconfessabile che Mazzoni squaderna – attraverso la violenza. Questo libro ci strige il polso e ci costringe ad ammettere che molto, nella nostra vita, è violenza: per quanto tentiamo giustamente di reprimerla, quella ci attira, ci seduce, ci interessa ben più di quanto ci interessino le persone; perché la violenza è naturale e necessaria. Così, mentre le facce sbiadite che circondano l’io poetico nella piatta vita di ogni giorno non sono più che “ostacoli / nell’atrio di Termini”, i soldati siriani filmati dall’Isis mentre vengono sgozzati o l’adolescente ucraina che recita nel porno acquistano immediatamente interesse, in virtù della violenza cui sono sottoposti. “È un video violento. Per questo ti interessa”; “È un video orribile. È un video molto bello”: Mazzoni non usa mezze misure, non si nasconde, e nel pugno chiuso della verità che con queste brevi frasi colpisce al ventre esplode tutta la potenza dirompente della sua poesia.
Una poesia che vuole essere sgradevole, che tende alla prosa e spesso addirittura alla schematizzazione analitica, come a dire che in una tale condizione di estraneità, incomunicabilità e violenza la poesia non ha più ossigeno, si sfalda verso una cruda antipoesia. Una poesia senza veli, oscena come sa essere oscena ogni cosa se analizzata da vicino e senza camuffamenti; una poesia che chiede al lettore un patto di coraggio: e se il patto viene accolto, allora i versi di Mazzoni brillano della loro straordinaria forza eversiva.
E non è un caso che solo al lettore coraggioso, che riesce a sopportare il peso della verità fino in fondo, venga offerta una paradossale occasione di riscatto, nell’ultima, bellissima poesia che chiude la raccolta. Paradossale, sì, perché è in un contesto di morte, di una malattia terminale, quando “sappiamo entrambi che non vivrai”, che si stabilisce un vero contatto, intimo, sincero. Così, prima di chiudere la tenda sulla vita e su questo libro, Mazzoni ci lascia accennando il primo vero sorriso, perché, semplicemente, “oggi non importa, siamo felici di esserci ancora”.