Il poliziesco al suon del koto: Il detective Kindaichi

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Il 25 novembre 1937 un terribile omicidio viene commesso nel piccolo villaggio di Yamonadami a Okayama.  Siamo in un Giappone alla vigilia della Seconda guerra mondiale, un Giappone in cui si avverte con forza il conflitto fra le tradizioni su cui da secoli poggia la vita del Paese e la spinta modernizzatrice iniziata qualche decennio prima con l’avvento del periodo Meiji. La divisione sociale secondo il lignaggio della famiglia, ormai quasi del tutto scomparsa nelle città, è ancora dominante nelle campagne, ed è per questo che la famiglia Ichiyanagi viene ancora rispettata e guardata come punto di riferimento nella zona.

È questo lo scenario con cui si apre Il detective Kindaichi, romanzo poliziesco in salsa giapponese portato in Italia da Sellerio – che ad altri romanzi del genere, ma ben più mediterranei, deve in parte la propria fortuna – in un compatto volumetto encomiabile anche per la scelta azzeccata della copertina. L’illustrazione, del maestro giapponese Kawase Hasui, è di poco antecedente al periodo dei fatti narrati e presenta due elementi fondamentali nel testo: alcuni edifici giapponesi tradizionali e la neve, che avrà un ruolo non di secondo piano nella risoluzione delle indagini.

L’autore,Yokomizo Seishi, è una delle più autorevoli voci che in questo ambito provengono dal Paese del Sol Levante a metà Novecento. Dopo l’arrivo dall’Occidente dei testi di Edgar Allan Poe, il tantei shosetsu (traduzione letterale dell’inglese “detective novel”) si era sviluppato in Giappone nei primi decenni del secolo soprattutto come genere metropolitano, adatto a descrivere i rivolgimenti culturali di quegli anni anche nelle loro tinte più fosche; fu poi l’arrivo di Sherlock Holmes e lo sviluppo del giornalismo a consacrarlo definitivamente come genere amato dal pubblico. In questo sviluppo furono alcune riviste ad avere un ruolo fondamentale; tra queste, soprattutto Shinseinen che, da 1927, fu diretta proprio da Yokomizo, egli stesso autore anche di romanzi polizieschi.

Anche Il detective Kindaichi presenta in effetti tutte le caratteristiche del romanzo poliziesco classico, così come fu iniziato da E.T.A Hoffmann ed Edgar Allan Poe e poi portato avanti da Conan Doyle e Agatha Christie. Tra queste spicca il fatto che a risolvere il mistero che circonda l’omicidio non sarà la persona ufficialmente incaricata delle indagini (un agente della polizia), bensì un esterno (il giovane detective Kindaichi, per l’appunto), che risolve il caso grazie al proprio spirito di osservazione e alle proprie illuminanti deduzioni. Il libro è poi anche costruito con la cura di lasciare una forte suspense tra un capitolo e l’altro – i rivolgimenti nella trama avvengono, guarda caso, proprio alla fine dei vari capitoli, per cui tocca proprio voltare pagina e iniziarne uno nuovo per capire come la vicenda si evolverà e soddisfare la propria curiosità. È persino presente una mappa del luogo dell’omicidio, così che il lettore possa meglio districarsi tra i vari angoli e le suppellettili incriminate. 

Lo stesso personaggio del detective Kindaichi viene tratteggiato come una sorta personificazione del genere poliziesco in carne e ossa. Innanzitutto, egli stesso è appassionato lettore di romanzi di questo genere, da cui trae ispirazione per il proprio lavoro – il giovane afferma infatti che le letture lo aiutano molto nel risolvere i casi, perché sebbene sia ovvio “che esistono delle differenze tra la realtà e la finzione […] il ragionamento e la logica che le accomunano ritornano spesso utili nella vita di tutti i giorni”. Anche il suo aspetto rimanda immediatamente al genere della detective story: secondo il narratore, egli “probabilmente doveva assomigliare a Tony Gillingham, il protagonista di un romanzo noir di uno dei miei autori preferiti: Alan Alexander Milne”.

Realtà e fiction si mischiano dunque inesorabilmente lungo tutto il corso del libro: i personaggi della storia (presentati come reali) fanno continuo riferimento alle vicende (fittizie) delle proprie detective stories preferite e da esse traggono ispirazione; eppure il lettore sa che Kindaichi, Saburo e lo stesso narratore sono personaggi inventati, almeno tanto quanto i detective a cui sono così tanto appassionati.

 Il detective Kindaichi è proprio un piccolo gioiellino metaletterario: un romanzo poliziesco che, forse ancora più che presentare al lettore un caso e la sua risoluzione al solo scopo di svagarlo un po’, riflette innanzitutto su sé stesso, sui propri antenati e modelli. Il che non sorprende, soprattutto se si tiene a mente il fervore del panorama letterario giapponese del periodo, in cui il genere poliziesco andava sempre più affermandosi e cercava di difendersi da chi lo attaccava o lo rinnegava.

Come spesso accade con i buoni libri, anche Il detective Kindaichi può stuzzicare l’interesse di diverse categorie di lettori; innanzitutto, coloro che già sono amanti dei romanzi gialli e vogliono scoprire nuovi orizzonti di narrativa, pur senza uscire dalla propria comfort zone e vedendosi offrire un testo che in tutto e per tutto si basa su modelli occidentali ben noti e assodati. Grazie però all’interessante spaccato della società giapponese in un momento cruciale della sua storia e alla ricchezza di riferimenti alla vita quotidiana e alle tradizioni dell’epoca, anche coloro che subiscono inesorabilmente la fascinazione del Paese del Sol Levante troveranno in questo romanzo pane per i propri denti – o, meglio, riso per le proprie bacchette.

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