Andar per fiabe e panpepato con Hermann Hesse

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Che gioia leggere Hesse. Quale piacere perdersi nei dettagli delle frasi equilibrate con la bolla, o nella composta ricchezza che presto si impara ad associare indissolubilmente alla prosa di questo classico moderno. Le sue confessioni, private ma non troppo, portano allo stesso tempo l’aura di un’accorata supplica di perdono e della più lucida, si direbbe infallibile, delle psicanalisi. E mai si prova questa sensazione come quando l’autore tedesco si mette in gioco in prima persona, invitandoci a sfogliare le pagine della sua quotidianità.

Esattamente questo è ciò che avviene in Viaggio a Norimberga. Scritto agevole, apparso per la prima volta nel 1927 con il titolo di Die Nürnberger Reise, il volume viene ora ridato alle stampe da Adelphi, che lo inserisce nella sua Piccola Biblioteca nella traduzione di Margherita Belardetti. L’opera racconta di un itinerario attraverso più città che Hesse compie per recarsi a Norimberga, in Baviera, perché invitato a tenere una conferenza. Il punto di partenza si colloca in questo caso nel suo eremo designato, il Canton Ticino, all’esatto confine con il Belpaese. Lo scrittore procede lento, dilatando i tempi di permanenza nei luoghi che più hanno segnato la sua giovinezza e dove ora ritrova la compagnia dei cari amici di un tempo, così diversi eppure sempre uguali.

Il viaggio diventa così occasione per Hermann (solo in seguito diventato Hesse) di sentirsi uomo tra gli uomini, e di riscoprire i luoghi magici della natia Svevia – regione tedesca in cui fa tappa – patria dei poeti la cui lettura guidò il giovane artista nella scoperta della propria vocazione letteraria. L’autore compie così un’ulteriore e preziosa auto-anamnesi, riconnettendosi al proprio passato tramite suoni, colori, profumi, arrivando infine a riconfermare la sua preferenza per la vita seclusa, lontana dalle insopportabili convenzioni borghesi, che si era per sé scelto al termine della Prima Guerra mondiale.

Un vero e proprio bigino del viaggiatore, contenente tutte le indicazioni necessarie per non perdersi mai tra una svolta e l’altra lungo l’itinerario non solo fattuale, ma soprattutto, della vita; una moderatamente appassionata apologia del sentimento, il quale, scaduta l’epoca romantica, sa che dovrà lottare con le unghie e con i denti per riconquistare il proprio posto nella società novecentesca. Questo, e molto altro, è Viaggio a Norimberga. Ma forse, per noi che leggiamo, il volume è anzitutto una rinnovata e inesausta scoperta di come le parole possano essere saporite se solo diamo loro il tempo di rigirarsi un po’ nelle nostre bocche. E di come la verità, e la penna che la esprime, siano il bene più prezioso che l’umanità possa vantare, persino quando – ed è lo stesso Hesse a rassicurarcene – questa sembri irraggiungibile con le mere facoltà intellettive: non c’è poi davvero bisogno di dissezionare ogni fiore che vediamo. È bene contentarsi del poco; ed essere saziati solo dal sublime.

Una lettura dunque obbligata, tanto per chi abbia già inserito Demian, Il lupo della steppa, o Siddharta tra i suoi titoli prediletti; ma anche per chi voglia, curioso, avvicinarsi per la prima volta allo scrittore, o, semplicemente, leggere un buon libro. Soprattutto, non fatevi ingannare dal titolo: alla fine poco importa, a ben leggere, che questo viaggio abbia una meta designata, e che tale sia una città nel Sud della Germania. Il vero viaggio, come chiaramente traspare, è per Hesse il pellegrinare di uno “sciocco eremita” che sa contentarsi di “pane di segale e fiabe; di sogni e di panpepato”. Magari gli altri avranno ragione, e il “folle poeta” si rivelerà davvero fuori di senno: a che cosa sarà infatti valso il perpetuo andare, l’irrequietezza dello spirito nell’immobilità del corpo? Il grande interrogativo rimane. Eppure, mentre l’autore si lascia trasportare dal vento, foglia secca sul ramo di un albero, una certezza è salda: “probabilmente”, conclude Hesse, “viaggerò a lungo, forse l’intero inverno, forse l’intera vita.” Ma “ovunque sarà mia facoltà, di fronte alle foglie spazzate dal vento freddo, non solo di rattristarmi, ma anche di ridere.”

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