Teatro i Maggio 2017: Gli angeli dello sterminio

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Si racconta che la Sibilla di Cuma vaticinasse il futuro scrivendo le proprie profezie su foglie che poi venivano confuse dal vento che spirava nella sua caverna. Così accade con “Gli angeli dello sterminio”, in scena al Teatro i di via Gaudenzio Ferrari a Milano fino al 29 maggio per la regia di Renzo Martinelli. Terzo capitolo di una serie testoriana iniziata con Erodiàs e Tre Lai. L’omonimo racconto di Testori, incespicante e difficoltoso, tendente al frammento più che alla sintesi, viene vivisezionato nella drammaturgia curata da Francesca Garolla e dallo stesso Martinelli: l’effetto è il caos. Il caos dell’Apocalisse.

I tre attori in scena: Ruggero Dondi, Emanuele   Turetta e Liliana  Benini

Come tanti asteroidi che cadono sulla Terra alla fine del mondo, gli episodi, i personaggi, le voci, gli oggetti piombano sulla scena: un incendio, la flute, la materia cerebrale, un virus, lo champagne, l’arcivescovo, i muri, la Cattedrale, il marciapiede. Nel vortice di parole auliche e lontane lo spettatore è catapultato in una Apocalisse tutta cittadina: non siamo a Patmos, ma a Milano. E la Cattedrale, di cui rimangono solo i muri e sul cui sagrato gli angeli della morte, come bestie sataniche, approdano con i loro rombanti destrieri, è l’unico residuo di questa città. D’altronde, a nessun altro luogo se non alla sua città il milanesissimo Giovanni Testori poteva dedicare la sua ultima opera. Pubblicato nel 1992 – l’autore morirà l’anno seguente – il racconto de “Gli angeli dello sterminio” è qualcosa di estremo: nel linguaggio, teso nell’aulicità più dissonante, esasperato dalle esclamazioni, e nelle immagini sanguigne.

È un continuo riferirsi a teste spaccate, cervelli che fuoriescono, sangue che cola, feti abortiti, corpi martoriati e distrutti: lo scritto di Testori non risparmia nulla, nemmeno gli insulti, e oggi lo annovereremmo facilmente tra i film horror. Eppure la scena voluta da Martinelli è candida, nel senso più vero del termine: bianca di dieci bianchi diversi, dal fondale da proiezione al pavimento, passando per gli abiti e gli oggetti. Pochi colori spiccano: soprattutto quella macchia rossa, raggrumata; solo poco sangue al centro della scena, simulacro di tutto quel sangue versato dalle parole del drammaturgo.
Ma di queste morti, di questa Apocalisse, dei suoi messaggeri su rombanti motociclette, in scena non vediamo nulla. Renzo Martinelli sceglie una soluzione che vorrebbe essere metateatrale, ponendo un regista dalla lunga esperienza con due giovani attori in un ring circolare cui sono aggrappate, nello spasmo estremo, candide mani morte. L’intenzione è di mettere in scena le prove del testo stesso: personaggi e attori finiscono per sovrapporsi, mescolarsi, confondersi, in un continuum per il quale certe volte è impossibile capire chi stia veramente parlando, nel caos della fine del mondo.
Ruggero Dondi, alle spalle un curriculum invidiabile da Strehler a De Capitani, è il regista che porta su di sé la croce di voler mettere in scena quel testo.

Liliana Benini

Lo seguono, docili attori ma talvolta giovani in rivolta, Liliana Benini ed Emanuele Turetta. La prima giovane torinese dalle molteplici esperienze, il secondo latelliano reduce da Santa Estasi e, più recentemente, dal ruolo di Romeo interpretato per D’Elia.

Le incongruenze e i silenzi del testo non li lasciano indifferenti: li bloccano, spingono i due giovani a fare domande; ma devono comunque andare avanti. Lentamente si delinea il personaggio di Madame La Flute, Liliana Benini, la fastidiosa e infastidita borghesuccia milanese che trascorre le giornate sorseggiando champagne, tranne al tramonto, quando finalmente può svegliarsi e leggere la mano agli ospiti. Ieratica in vita, morirà investita, senza che nessuno, attore o spettatore, se ne dispiaccia. Al personaggio femminile fanno eco le diverse vesti ben indossate da Turetta, ora carnale, ora western, ora attore in difficoltà.
Alla fine arriveranno gli angeli del titolo, araldi di morte sui loro bolidi a due ruote. Saliranno sul sagrato del Duomo, stuprando la più sacra reliquia milanese, e lì si fermeranno. Il racconti di Testori parla allora di una massa bianca che emerge dalle rovine e come il lettore non sa se si tratti dell’Anticristo e del Giudice, così lo spettatore, ancora scioccato, non sa se la messinscena è finita o meno.

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