Teatro Elfo Puccini maggio 2017: Una serie di stravaganti vicende

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“Sognare è stato lo scopo della mia esistenza” scriveva Edgar Allan Poe. E l’esperienza di un sogno è quella che l’affiatata coppia Bruni Frongia offre agli spettatori dell’Elfo Puccini in questo tramonto di stagione: un piccolo gioiello di meno di un’ora, confezionato ad arte, che rimarrà in scena in sala Fassbinder fino al 21 maggio.
Una serie di stravaganti vicende nasce come esplicito omaggio alla brevissima e fulminea vita del maestro del terrore morto a soli quarant’anni, ma diventa qualcosa di più: non solo semplice racconto, o semplice spettacolo, ma esperienza pulsante nel quale il pubblico viene immerso. Tu spettatore allora ti accomodi in una sala che diventerà, a luci spente e a sipario aperto, un carillon che suona la musica del terrore e della morte, con i suoi ingranaggi perfetti, raffinati. E la sua ballerina, assolutamente a proprio agio in scena, è il Corvo, il Narratore -lui- Ferdinando Bruni, l’unico attore sul palco.
Proseguendo e portando alle estreme conseguenze le precedenti esperienze di riscritture drammaturgiche “contaminanti” come la Salomè wildiana, forti di quella Tempesta dalle mille voci affidate al solo Bruni sul palco, ora la coppia di registi approda a una nuova tappa del proprio percorso di creazione. Il testo di Poe – anzi, i diversi testi, dai racconti ai versi – è sull’orlo dell’abisso, basterebbe pochissimo a farlo scomparire: i racconti si intrecciano, senza distinzioni, iniziano e rimangono sospesi, il gracchiare del Corvo e l’inglese della celebre poesia The Raven scandiscono come il tamburo del boia l’andamento dello spettacolo. E non importa più se le frasi si perdono e le parole scompaiono, perché non è il testo l’importante: c’è qualcosa di più, in quella sala teatrale, un’atmosfera. Ferdinando Bruni, scalzo, ora corvo, ora gatto, è lo stregone dalla voce magica che ci solleva dal nostro posto a sedere per farci perdere nel labirinto della notte.
Una scena che sembra uscita dal pennello del miglior Friedrich è la raffinata, studiatissima, scatola del carillon, dominata dalle grandi stoffe simili a un baldacchino – o forse al sudario di un feretro – che diventano schermi per le video proiezioni. Disegni, animazioni, immagini create dagli stessi registi che accompagnano la narrazione senza mai sovrapporsi alla recitazione ma anzi amplificandola, talora nascondendo, talora svelando quel che dietro quel velo accade. E in alto domina lui, il Corvo, appeso come il simulacro di un’arcaica religione, Signore della Notte pronto ad accogliere le spoglie di Annabel Lee. Le precise luci di Nando Frigerio, giocate su un monocromo quasi totale, sono gli strumenti che rivelano i dettagli e creano gli ambienti, alla ricerca delle ombre prima ancora che delle parti illuminate.
Ma la vera coprotagonista delle stravaganti vicende dell’Elfo è la musica di Teho Teardo, in costante dialogo con la voce di Bruni: incalza, ritma, rallenta, guida la danza dell’oscurità che avviene sul palco. E con lei Bruni gioca continuamente: si sovrappone, la contraddice, si lascia accompagnare. Sono sonorità che combaciano al millimetro con la recitazione, la scenografia e i video, tanto che diventa difficile riconoscere i diversi contributi di una sinergia artistica che sicuramente funziona.
Solo è l’uomo di fronte al Corvo, nella poesia di Edgar Allan Poe. E soli, terrorizzati, spenti nel buio della notte sono i protagonisti dei testi scelti da Bruni e Frongia per questa pièce: dal doloroso canto dell’amore finito per Annabel Lee (uno dei contributi fuori scena della voce di Ida Marinelli) alle solitudini che si affrontano per sette notti ne Il cuore impazzito. E ancora è la solitudine di William Wilson che uccide ed è ucciso, “morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza!”, è la pazzia del racconto di Eleonora, è il terrore di rimanere soli, ora e per sempre, che agita ciascuno di noi.
Non è uno spettacolo da seguire, Una serie di stravaganti vicende: sarebbe uno sforzo frustrante e, forse, inutile. È uno di quei momenti da vivere in balia di suoni e immagini, guidati dalle stregonerie di Ferdinando Bruni e di Francesco Frongia. E quando l’ultima parola spetta al Corvo, al suo gracchiare che diventa un anatema, quel “Nevermore!” che ci fa ritornare nella realtà un po’ lo vogliamo maledire, perché ci ha strappato da un mondo altro, quello del sogno, in cui le nostre solitudini finalmente si toccavano.

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