Il principio d’inerzia. Capitolo quattro: Mamma sa quanto sia importante

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La telefonata deve essere andata così.
In Italia sono le 07:00 a.m. e i miei genitori dormono, non si alzano mai prima delle 10:00 a.m., chissà a che ora hanno mandato l’ultimo pezzo della giornata. Anche Antonio dorme. Quel gatto è peggio di una sanguisuga, finché mio papà non si alza dal letto lui se ne sta acciambellato praticamente sulla sua faccia.
In casa mia i telefoni si spengono quando si dorme. Ma il campanello rimane sempre a disposizione; infatti, dopo poco, suona. Una volta, due volte, solo alla terza Antonio si infastidisce e cambia guancia, mio papà sente il pelo pizzicargli la narice e driiiiin, suona il campanello per la quarta volta. Si sveglia anche mia mamma. Lei, al contrario di mio padre, ha la capacità di uscire dal coma in due secondi e scattare alla vita. È la mia mamma ad aprire la porta e la Bonfanti -mitica prof- la travolge di pianto e parole. Ora anche mio papà e Antonio sono svegli.
Deve essere stato così che li hanno avvisati.
Perché li avranno avvisati, no? Voglio dire, sapranno che non sono stato rapito, né che mi sono perso, no?
Ancora non so cosa fare, ma sono certo di aver capito cosa non fare. Sono un punto fermo, immobile su questa panchina di pietra. Qualsiasi mossa, d’ora in avanti, porterà con sé un peso di enormi conseguenze, eppure non sento il vuoto di ciò che sta indietro. Qualcuno mi sta guardando. È lei, la vecchina di prima, mi ci sono seduto vicino ma sembra non se ne sia nemmeno accorta. Ora mi fissa, i suoi occhiali sono di legno, tra il quadrato e il tondo, le fanno due occhi enormi e sembrano in attesa di una risposta.
Non mi resta che uscire dal groviglio di pensieri, azzardo:
– Como? Non hai intendido, jo soy italiano.
Il mio spagnolo è davvero terribile. Per fortuna in pratica tutti gli argentini hanno un parente in Italia, anche lontanissimo.
– Italllianoo, que lindo…
Sono salvo. Solo che la vecchia continua a parlare, tantissimo, a una velocità assurda. Mi arrendo dopo le prime tre parole. Non capisco niente, è la mia faccia a parlare per me: pupille all’insù, sorriso racchiuso in due fossette e zigomi rossi dall’imbarazzo.
Lei capisce, sorride: ha solo un dente!
Mi fa qualche gesto, sembriamo capirci di più e ci presentiamo.
– Felù.
Dice lei, o almeno così mi sembra.
– Peter.
Rispondo io.
Mi accarezza il viso e la sua mano trema sui miei occhi e io li chiudo.
La Grotta dell’Eco è davanti a me, trasforma tutti i frastuoni, i rumori si allungano. L’acqua si unisce ai suoni e le onde, là sotto, cercano di arrampicarsi per raggiungermi, ma non sono ancora abbastanza forti. Una foglia piatta e larga mi fa solletico sul collo, apro gli occhi, è solo la sciarpa di Felù a sbandierare tra il suo collo e il mio.
Quando si calma il vento, davanti a me c’è solo il parcheggio degli autobus e due poliziotti. Afferro un angolo di gonnellone della vecchia e scivolo sotto le sue gambe. Ho ereditato i riflessi di mamma. Sono invisibile. Felù resta immobile. La gonna ha un piccolo strappo dal quale posso tenere d’occhio la situazione: i due agenti passano sospettosi, ma non abbastanza da intuire dove sono. Mi sento picchiettare sulla fronte, quando sono fuori non riesco a guardare Felù in faccia: mi vergogno troppo!
Come faccio a dirle cosa succede?
Sono di nuovo i suoi occhi giganti a cercarmi e con un pizzicotto sulle guance Felù trasforma il mio broncio in un sorriso.
È strano: non mi chiede niente, ma tira fuori dalla borsa un foglio, una matita, un libro sul quale appoggiarsi e disegna qualcosa. Una mappa parte da dove siamo noi, esce dall’aeroporto, passando tra punti di riferimento che Felù cerca di spiegarmi ma che io non capisco, fino ad arrivare in mezzo ai campi e quelli che sembrano essere laghi. La strada prosegue a lungo nel nulla e poi la vecchia si ferma, disegna un grande cerchio con dentro diversi tipi di animali, una casa e alcuni omini stilizzati.
– Tu casa?
Azzardo di nuovo.
Felù fa sì con la testa mentre vicino al cerchio scrive in stampatello: El Bolson.
La riconosco! È una micro cittadina nella Regione dei Laghi, non molto lonana da Lliagos, la città del museo Grotta dell’Eco! L’ho vista sull’Atlante mentre raccontavo alla mamma la mia idea d’itinerario seguito dai marinai di ritorno dalla grotta. Felù vede quanto sono eccitato, mi fa segno sulla mappa, come a dire anche tu devi andare lì?Tiro fuori la cartina per farle vedere Lliagos poi qualcosa mi blocca, non sono certo sia già il momento di parlarne a Felù. Indico El Bolson, come a chiedere conferma di aver capito giusto. Poi punto il dito al mio petto e subito indico il suo, poi di nuovo il mio. Felù è troppo intelligente! La sua mano tremolante ora è intorno alle mie spalle, mi porta con sé.
C’è un pullman in partenza. Sul parabrezza c’è scritto:
BUENOS AIRES (05:00 p.m.) – EL BOLSON (05.00 a.m.).

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