Piccolo Teatro Strehler aprile 2016: L’opera da tre soldi

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“L’opera da tre soldi” torna al Piccolo di Milano dopo le due grandiose regie di Giorgio Strehler. A portare in scena il testo di Bertolt Brecht è Damiano Michieletto.
Il dramma nacque a metà Novecento dalla penna del celebre drammaturgo e regista tedesco come un’attualizzazione feroce della settecentesca “The Beggar’s Opera” di John Gray, l’opera del mendicante letteralmente. E infatti nella piéce brechtiana è l’umanità più lacera ad andare in scena: la vicenda del bandito Mackie Messer, della mogliettina Polly e del subdolo suocero Jonathan Peachum non è che la spina dorsale di un testo che innanzitutto parla di oppressi e di oppressori, di vittime e di sistema. Non c’è morale che tenga, l’unico padrone è il denaro.
Sin dall’ingresso al teatro Strehler (dove sarà in scena fino all’11 giugno) con il sipario al limite del kitsch, il pubblico è consapevole che quello che vedrà sarà un allestimento alla ricerca di contrasti talvolta forzati tra registri linguistici ed estetici molto diversi. Michieletto ama giocare con colori, situazioni non-sense, turpiloqui, luci ed effetti; vuole stupire lo spettatore, e talvolta quest’intenzione emerge un po’ troppo.
Ben riuscita e interessante l’idea di ambientare l’azione in un’unica scenografia: un’enorme gabbia, che in realtà è un’aula di tribunale, accoglie lo svolgimento del dramma, con le scene che rivivono in un fluire continuo, come un flashback di corpi e parole; tutto si trasforma sul palco, arredi e persone, ma nulla alla fine cambia. Michieletto trova così il modo di straniare la rappresentazione, presentando chiaramente al pubblico tutti gli artifici della scena, dagli attori che diventano personaggi solo in taluni momenti agli arredi di scena sempre in vista dietro le sbarre, passando per i fari a vista. Ma al contrario della prassi brechtiana blocca lo straniamento sul palcoscenico: il vero “pubblico” coinvolto in un processo razionale di giudizio non è infatti quello che siede in sala ma gli attori stessi.
Michieletto osa, talvolta infastidisce, talvolta annoia. È evidente che cerca di attualizzare la messinscena ma con risultati piuttosto sterili; basti pensare, per citare l’esempio più palese, la scena isolata in cui i mendicanti sembrano diventare naufraghi che affogano mentre i giubbotti di salvataggio si allontanano.
“L’opera da tre soldi” è inoltre, come il nome stesso dice, un insieme indivisibile di prosa e canzoni; a dare forma alle note scritte da Kurt Weil l’orchestra sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano con un’interpretazione impeccabile. Con un “però” molto importante: il legame tra recitato e cantato nel dramma brechtiano è fondamentale, non si può pensare di abbandonare per strada uno dei due elementi. Come invece purtroppo accade nella messinscena del Piccolo. I canti rischiano così di scivolare allo status di banali intermezzi retrò: errore tecnico, certo, nella regolazione dei volumi ma anche scelta errata per parte degli interpreti. Per “L’opera da tre soldi” non servono attori ma performer, e questo cast, buono nella recitazione, rivela nel canto la propria debolezza: Peppe Servillo è un ottimo Jonathan Peachum ma appena inizia a cantare la voce si impasta e trema; spettacolare Rossy De Palma nei panni di una Jenny spregiudicata, decisamente inadatta alle parti cantate. Reggono alla prova del doppio registro Marco Foschi, Mackie Messer, il cantastorie Giandomenico Cupaiolo e, soprattutto, gli scagnozzi di Mackie (Pasquale Di Filippo, Claudio Sportelli, Martin Chishimba, Jacopo Crovella, Daniele Molino, Matthieu Pastore).
Bisogna certo dire che portare in scena Brecht oggi, e farlo con il peso delle messinscene di Strehler, è un azzardo coraggioso. La regia di Michieletto può piacere o non piacere e gode apertamente di questo conflittuale rapporto con il pubblico ma nel complesso l’allestimento lascia in bocca un sapore insipido: poteva essere decisamente più gustoso, poteva essere ben più immangiabile. Invece ne risulta un piatto buono per sfamarsi. Ma forse la vera domanda è un’altra: nella società del cambiamento rapidissimo dove ogni anno supera le scoperte dell’anno passato come far parlare la poetica brechtiana di metà Novecento?

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