Piccolo Teatro Stehler gennaio 2017: Pinocchio

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Un Pinocchio per adulti, per stomaci forti. Antonio Latella, per la sua prima produzione con il Piccolo Teatro di Milano, sceglie il romanzo di Carlo Collodi ma lo stravolge totalmente. Latella riparte dal testo ottocentesco, uccide Walt Disney e cerca l’eccesso, in alcuni punti spingendosi fin troppo oltre. Dimentichiamoci il Pinocchio bambino del cartone animato, Latella vuole parlare agli adulti e lo fa spingendoci al limite: le signore in sala rumoreggiano, si scandalizzano, alcuni passaggi sanno di pura provocazione, ma è evidente che questo vuole essere la marionetta del regista napoletano, un non-uomo che spinge tutti noi a ricercare chi siamo. Da dove veniamo.
Il Pinocchio di Latella è un figlio alla ricerca del padre. Creato da un creatore che non vedrà più, Pinocchio cerca in ogni modo di diventare un ragazzo vero. Ma lo fa in un mondo di morti. “Pinocchio appartiene al turchino”, si recita in scena, e quel turchino, colore del naso di Mastro Ciliegia, colore della Fata-bambina morta da cent’anni, è il purgatorio in cui si muove lo spettacolo in scena al Piccolo Teatro Strehler fino al 12 febbraio.
La scena senza quinte di Giuseppe Stellato (animata da minimali ma efficaci luci di Simone De Angelis) – dove anche i rumori vengono prodotti sul palco, dove una batteria di fari a vista occhieggia al pubblico, dove una nevicata di trucioli ricopre tutto – ospita come un laboratorio di un grande artigiano la creazione della marionetta-bambino. L’artigiano, il dio creatore, lo mette al mondo, ma a che prezzo, viene da chiedersi? Piange, Pinocchio, urla terribilmente nella straziante scena in cui Geppetto tornisce il legno: non c’è il solletico divertito descritto da Collodi ma tutto il dolore leopardiano dell’uomo.
Ed ecco allora sul palco il burattino, logorroico, energico, vitale, insaziabile di vita e avventura, uno skater in nero con stretto al petto quel pezzo di legno – Romeo/Lucignolo – che dovrà sacrificare per diventare uomo. Perché Pinocchio cresce, in scena; la drammaturgia di Latella, Federico Bellini e Linda Dalisi lo accompagna nella dolorosa scoperta della vita, bambino, adolescente in ribellione, uomo fatto in cerca di risposte, ma mai il burattino è completo. È un non-ancora-vivo. Il padre? Lo crea e poi scompare; quando lo ritroveremo, nel ventre della balena, scopriremo che sarebbe stato meglio non trovarlo del tutto. E la madre? Quella mamma che non esiste e che Pinocchio fatica addirittura a chiamare? La Fata Turchina? Una bambina morta che si serve di Pinocchio per il semplice fatto di non aver fatto in tempo ad avere un figlio proprio? È un Pinocchio distrutto dalla vita, abbandonato, quello interpretato con straordinaria energia da un esplosivo Christian La Rosa. Violato. E nulla più si potrebbe dire senza svelare la durezza del secondo atto.
Se nel primo atto il regista si muove giocando con il testo di Collodi, anche attingendo alle mille interpretazioni del romanzo ottocentesco, nel secondo atto il gioco di distruzione si fa scoperto: l’enorme tronco che domina la scena si muove, diventa un naso che cresce, sempre più simile a un fallo che avanza; il linguaggio si fa duro, il turpiloquio investe (eccessivamente) il palco, la splendida scena della scuola lascia senza scampo il sistema dell’insegnamento, fino alle terribili scene del paese dei Balocchi e del Pescecane, con le invasioni (decisamente fuori contesto) di Dante e della Febbre del sabato sera.
In scena con La Rosa un cast affiatato che regge i ritmi fuori dal comune, tanto nella velocità quanto nell’immobilità, di uno spettacolo ai limiti: Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo e Massimiliano Speziani.
Latella ti sconvolge. Ti provoca. Ti infastidisce perché capisci che vuole esagerare (nei toni, nei tempi, nelle interpretazioni). Fino a quell’implorante, straziante, sussurro finale – “Cresci, cresci, cresci” – rivolto al naso del padre, senza speranza. Piangendo è nato il burattino. Piangendo è diventato uomo. Solo. In una vita che non ha chiesto, perché “fare un figlio non vuol dire amarlo”.

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