Ho pensato a Giulio Regeni leggendo un manoscritto in lingua d’oc

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In quell’«inferno di egoismi» che è la vita, la storia, secondo Schopenhauer, è solamente il fatale ripetersi di uno stesso dramma, nient’altro che una «monotona sonata» che ci viene riproposta battuta per battuta da sempre e per sempre. Secondo Schopenhauer, quando leggiamo Erodoto, il padre della storia, conosciamo già tutta la storia dell’umanità.

È a questo che si pensa di solito quando si viene a conoscenza di fatti storici che, pur vecchi di mezzo millennio, ripropongono gli stessi schemi di base di eventi che interessano drammaticamente la nostra contemporaneità facendo appello alle nostre coscienze. Così può capitare di pensare alla dolorosa vicenda di Giulio Regeni mentre si legge un manoscritto provenzale del XV secolo.

Nel manoscritto fr. 1277 della Bibliothèque nationale de France di Parigi è conservata una traduzione in provenzale di un’opera tanto importante per gli storici quanto trascurata dai filologi: L’Arbre des batailles di Honoré Bovet (1340-1410). L’Arbre des batailles è un trattato in prosa francese di diritto militare che ebbe una vastissima diffusione tra XV e XVI secolo. Si tratta di un’opera fondamentale per comprendere la concezione della guerra alla fine del Medioevo: gli aspetti giuridici ed etici, il diritto internazionale, i diritti dei popoli in guerra, l’eroismo cavalleresco sfoggiato nella pratica dei duelli per vendicare i torti subiti e la rigida disciplina, la lealtà verso il re, il servizio delle arti militari al bene comune.

Dell’Arbre des batailles, incredibilmente, non esiste un’edizione moderna. Cionondimeno esiste (magra consolazione) un’edizione della traduzione provenzale dell’opera, L’Arbre de batallas, tràdita appunto dal manoscritto suddetto. Ed è proprio leggendo un brano di quest’ultima che ci si profila nella mente il triste destino di Giulio Regeni, ventottenne dottorando di ricerca italiano dell’Università di Cambridge ucciso tra il gennaio e il febbraio del 2016 a Il Cairo (dove si trovava per fare ricerche) in circostanze ancora parzialmente non chiarite.

Al foglio 193v del manoscritto l’autore ci propone un caso giuridico la cui lettura rende immediatamente chiaro il motivo dell’attinenza del testo alla vicenda di Regeni: si racconta che un certo licensiat, ossia uno studente laureato, di Londra andò a studiare a Parigi nel periodo della Guerra dei Cent’anni perché voleva diventare mestre (‘maestro’) in diritto o in teologia. Honoré Bovet (o meglio il suo traduttore) racconta che però, una volta giunto a Parigi, lo studente fu imprigionato da un uomo d’arme che lo trascinò addirittura davanti al re per essere processato. L’ome d’armas lo accusava di essere in realtà una spia venuta in terra gallica per trasmettere al proprio sovrano los secretz del re di Francia. Davanti alle accuse del suo rapitore lo studente si difende utilizzando l’unica arma che possiede: la dialettica. Honoré lascia parlare l’ipotetico studente e alla fine del brano fornisce la sua opinione a proposito della vicenda: E segon mon avis… Il suo interesse principale è quello di proporre al lettore un caso giuridico particolare su cui riflettere.

Così anche noi oggi, a distanza di secoli, ci troviamo a riflettere di fronte al racconto di Honoré Bovet e lo facciamo con un’amarezza che è tutta del nostro tempo. Ci viene in mente che anche Giulio Regeni era uno studente straniero in un paese militarizzato e instabile in preda a un generale clima di sospetto e di violenta repressione del dissenso. Secondo la ricostruzione del giornalista del «Guardian» Alexander Stille, «Giulio Regeni, con la sua capacità di parlare cinque lingue, il suo cellulare pieno di contatti egiziani e stranieri, poteva sembrare una spia; e la polizia, in un sistema con pochi o nessun obbligo di rispondere delle proprie azioni, potrebbe avere commesso degli errori sconsiderati».

La fattispecie giuridica è molto simile a quella proposta da Honoré Bovet, ma con la significativa differenza che lo studente inglese (nel tanto vituperato e oscuro — sic! — Medioevo) fu portato dal “poliziotto” davanti al tribunale del sovrano: gli fu data insomma una possibilità per dimostrare nella maniera che meglio conosceva, ossia con le parole, la sua innocenza e per giustificare la sua posizione di studente che aveva lasciato le sue ricchezze, i suoi amici e il suo paese e che si era messo in povertà soltanto per saber e per saviesa aquerre (‘per acquisire sapere e saggezza’).

Ciò che più colpisce del confronto tra le due vicende è proprio il fatto che a Regeni non è stata data nessuna possibilità di difendersi: è stato rapito e brutalmente massacrato, senza appello, da una violenza che non lascia spazio alla parola. L’omicidio di Giulio Regeni è diventato così la migliore e più eloquente rappresentazione di quel sospetto, di quell’incomprensione e di quel disprezzo che sempre aleggiano su chiunque nella vita agisce solo per saber e per saviesa aquerre mettendo la ricerca della conoscenza prima di ogni altro interesse.

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Si offre qui il testo del brano citato dell’Arbre de batallas (ed. Bartsch) cui si fa seguire la sua prima traduzione in una lingua moderna . Il presente lavoro si intenda dedicato alla memoria di Giulio Regeni.

Si un estudiant angles ven a Paris per estudiar, si deu esser apreyssonat.

[…] Hom sab ben que lo rey de Fransa e lo rey d’Anglaterra an tot jorn guera ensemble. Si es vengut un licensiat de la ciutat de Londres per estudiar a Paris e per estre mestre en decretz  o en teulegia, un Franses l’a apresonat, e la questio ven per devant lo rey. So ditz lo licensiat qu’el no deu pas far finansa ny esser presonier, e si fonda sa oppinio en dreyt, disen qu’el a cas espres de ley per sa partida, la qual dona previlegi fort grant als escolas e si deffent que hom no lor fassa greu ni desplaser, mas tota honor e reverensia; e vec vos la raso que ditz la ley: “Qual sera,” ditz ela, “tals homes que non aura merce d’un escola lo qual per saber e per saviesa aquerre ha layssat riquesas e sos amix carnals e son pays, e si s’es mes en paubretat e si s’es fayt banir entre autra gent? Ben seria descortes a quel que mal li faria.” Mas l’ome d’armas que l’a apresonat tantost respon: “Mos amix, entre nos Franses non avem cura de vostras leys ni de l’emperayre que las ha faytas.” E lo licenciat replica: “Sira,” fayt el, “leys non sont altra causa que dreytas rasos ordenada segon sabiesa. Si vos non avetz cura de las leys, ja per so non es que los senhors de Fransa non amen raso en las causas rasonablas. E d’autra part, quant Charle-Mayne l’estudi guasanhec, lo qual hera a Roma, e de la volontat del papa remudec a Paris, lo papa e lo reys doneron privilegi grant en aquest studi de Paris. E per aquela via enmenec lo reys de las partidas de Roma mestres escolas de totas lenguas. E donc per que non poyria el venir seguramen, puys qu’els foron asseguratz per lo rey?” “Sira,” so dis l’ome d’armas, “supausat que totz escolas fossan asseguratz, depuis que guera general foc jutghada per lo rey de Fransa contra aquels d’Anglaterra, nuls Angles no deu venir per estudiar ny per autra causa. Car per color d’estudi vos poyriatz venire en aquesta vila he poyriatz escriure e mandar los secretz del rey e lo aseguramen del realme a sos enemix, dont lo rey poyria aver dapnatghe.” […] E segon mon avis, mas qu’el sia veray estudian, no es a dire qu’el no fos vengut falsament o per falsa color per espiar, yeu cresi verayament qu’el no deu esser presonier, si no que lo reys agues fayt mandament general que negus Angles estudian no venghesan en son realme; e si alcun ditz, si lo rey non obstan los privilegis papals autreghaz a l’estudi poyria far tal mandament, yeu dic que non i qual doptar. Car si l’arcivesquat de Roams vacava o l’avescat de Paris e los canonges eligian un Engles, lo rey poyria contradir a la electio e en seria escotat segon las oppunyos de nostres mestres e tot per aquesta ras; car non es pas expedien ny al realme ny al rey d’aver en son realme son enemic.


Traduzione

Se uno studente inglese viene a Parigi per studiare, se debba essere imprigionato.

[…] Si sa bene che il re di Francia e il re d’Inghilterra sono sempre in guerra tra di loro. Un laureato della città di Londra è venuto a Parigi per studiare e per diventare maestro in diritto o in teologia. Un Francese lo ha imprigionato e la questione giunge davanti al re. Il laureato dice che non deve pagare una pena pecuniaria o essere prigioniero e che la sua posizione si fonda sul diritto, sostenendo che in questo caso la legge è espressamente dalla sua parte dacché concede grandissimi privilegi agli studiosi e li difende cosicché nessuno faccia loro qualche torto o dispiacere, ma piuttosto tutti gli onori e le riverenze. E vedete voi la ragione che esprime la legge: “Chi potrebbe”, dice essa, “non avere pietà di uno studioso il quale per acquisire il sapere e la saggezza ha lasciato le ricchezze e i suoi amici intimi e il suo paese e si è messo in povertà e si è fatto sequestrare tra gente straniera? Sarebbe certo privo di cortesia colui che gli fa del male”. Ma l’uomo d’arme che l’ha imprigionato tosto risponde: “Amico mio, tra noi Francesi non abbiamo cura delle vostre leggi né dell’imperatore che le ha fatte”. E il laureato replica: “Signore,” dice quello, “le leggi non sono altro che giuste ragioni ordinate secondo saggezza. Se voi non avete cura delle leggi, non per questo i signori di Francia non amano la ragione nelle cause argomentate. E d’altra parte, quando Carlo Magno guadagnò lo studium, il quale era a Roma, e per la volontà del papa lo trasportò a Parigi, il papa e il re concedettero grandi privilegi a questo studio di Parigi. E in questo modo fece trasferire da Roma maestri studiosi di tutte le lingue. E dunque perché non si potrebbe venire in sicurezza dopo che loro furono garantiti dal re?”. “Signore,” dice l’uomo d’arme, “supponiamo che tutti gli studiosi fossero garantiti: dopo che una guerra generale fosse indetta dal re di Francia contro quello d’Inghilterra, nessun inglese dovrebbe venire per studiare né per altro motivo. Perché voi potreste venire in questa città col pretesto dello studio e potreste scrivere e inviare i segreti del re e gli assetti del regno ai suoi nemici, dalla qual cosa il re potrebbe avere un danno.” […] A mio avviso, se fosse un vero studente, non si può dire che fosse venuto ingannando o con mendace pretesto per spiare: io credo in verità che non debba essere fatto prigioniero, a meno che il re avesse dato mandato generale che nessuno studente inglese venisse nel suo regno. E se qualcuno si chiede se il re, nulla ostando i privilegi papali garantiti allo studio, potrebbe emanare un tale mandato, io dico che non lo si deve dubitare. Poiché se l’arcivescovato di Reims fosse vacante o il vescovato di Parigi e i canonici eleggessero un Inglese, il re potrebbe opporsi all’elezione e sarebbe ascoltato secondo le opinioni dei nostri maestri e ciò per questa ragione: poiché non è vantaggio né per il regno né per il re l’avere nel proprio regno il proprio nemico.

 

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