I classici e la spina

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E’ questo il momento – quando la vecchia stagione si è chiusa e già si può sbirciare in quella nuova – più adatto per uno sguardo d’insieme sul “teatro milanese” che nei mesi scorsi gli spettatori hanno potuto vedere in città.
Una caratteristica comune alle programmazioni dei più diversi teatri è stata la riproposizione in cartellone dei grandi nomi della storia del teatro: i “classici“, come li chiamiamo con un misto di devozione e di terrore. Il Carcano ha scelto Aristofane, Miller, un raro Machiavelli e addirittura Chaplin e Kubrick; l’Elfo ha proposto un poco frequentato Brecht comico e  Miller, oltre a spettacoli come “Il bugiardo” goldoniano; il Piccolo, di cui basterà citare la ripresa de “L’opera da tre soldi” o Botho Strauss; e ancora il Franco Parenti con Ibsen, Brecht, Shakespeare e Molière. E l’elenco potrebbe essere ancora lungo…
Proporre un classico certo ha un effetto rassicurante sullo spettatore (“Ah, Shakespeare! È famoso, andiamo a vederlo!”) e allo stesso tempo attira anche gli abitué più esperti e curiosi di vedere come questa millesima messinscena brechtiana abbia reso l’immancabile topos dello straniamento. Così si gioca la partita, sull’allestimento: per quanto malleabile, il testo di partenza rimarrà sempre più o meno vicino a quello consacrato nel pantheon della letteratura. Ma lo stesso non vale per lo spettacolo, per il quale concorrono così tanti elementi estranei al semplice copione che sarebbe impensabile pretendere di vedere in due teatri diversi lo stesso “Otello”. La questione diventa ora quanto sia giusto -bello, efficace, coerente- intervenire con la messinscena sul testo del classico.
Messinscena fedelissima all’epoca dell’autore? Forse lodabile per un Brecht (divertenti così gli effetti sul pubblico) ma sicuramente inefficace per Shakespeare: “Romeo, rinnega tuo padre e rifiuta quel nome” in bocca a un uomo travestito da Giulietta suona a dir poco ridicolo. Tocca così ai registi che intervengono più o meno pesantemente sul classico, e sembra che il loro espediente preferito sia ormai la riattualizzazione. A Milano abbiamo assistito ad un’agghiacciante Lisistrata in abiti ottocenteschi e aria da cabaret con tanto di riferimenti a Mr. Grey; a un “Mr. Puntila” brechtiano proposto con comicità tagliente e straniante atmosfera da teatro povero di periferia; ad un’acclamata “L’opera da tre soldi” in una messinscena ricca, rumorosa e sfarzosa. La questione non è se un allestimento che osa trasformare un classico sia più o meno “corretto” – lasciamo la filologia agli accademici – ma quanto questo osare sia in linea con il classico. In altre parole, quanto spazio rimanga a Brecht e quanto invece al regista del 2016?
Molto interessante è la riflessione che Harold Clurman, regista e critico statunitense, ci propone riguardo a quella che chiama la spina del testo. Il classico (ma anche un copione contemporaneo, fa poca differenza) può essere letto, interpretato e rappresentato in mille modi diversi. Inutile – e da superficiali – giudicare un allestimento shakespeariano giusto o sbagliato; piuttosto lo si giudichi coerente o incoerente con la spina del testo. La spina, spiega Clurman, è quella linea interpretativa del testo che lo regge in tutto lo svolgimento come una colonna vertebrale, che motiva ogni singolo aspetto. La spina non è unica: se ponessimo tre registi di fronte alla “Dodicesima notte” di Shakespeare ognuno sceglierebbe una strada diversa e tutte tre potrebbero essere coerenti con il testo.
Ecco, oggi abbiamo l’idea che un classico non possa essere interessante e comunicativo senza stravolgerlo completamente. Se, da regista, presentando uno spettacolo di Sofocle non scrivo che è “completamente riattualizzato” mi troverò davanti, specie in provincia, un pubblico di soli studenti e studiosi. E allora, per ovviare a questo, la tendenza di alcuni teatri e registi è quella di portare in scena, per esempio, Aristofane con una lettura che con il dramma del V secolo a.C. ha il solo tenue legame del titolo sul frontespizio blu del libricino della BUR sul nostro scaffale.
Caso insolito –e che fa ancora sperare– ci è stato dato quest’anno dalla Salomé di Bruni/Frongia, riproposta dopo il debutto del 2010-11. Chi ha potuto assistere a questa rappresentazione avrà notato che del dramma di Oscar Wilde resta ben poco, persino il testo viene completamente rovesciato e mescolato a citazioni da altre opere wildiane: via le convenzioni sceniche ottocentesche, via persino l’elemento femminile. Eppure questa Salomé è stata estremamente wildiana, forse perché non si è limitata a un restauro della superficie del classico ma ha ripreso in mano, qui e ora, la spina di quel testo e di quell’autore.
Sono solo pochi esempi e, ovviamente, discutibili come tutte le interpretazioni dell’arte e della scena contemporanea. Ma quel che il pubblico dovrebbe forse iniziare a pensare è che un classico è tale proprio perché sa parlare anche a noi oggi così com’è, per la sua universalità e non perché è elencato nei libri di storia. Allora forse andremmo più volentieri a teatro a vedere Shakespeare, Calderon o Molière, disposti ad ascoltarli. Convincere gli spettatori di questo – invece di assecondarli sempre e comunque – è uno degli ingrati compiti del regista di oggi.

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