Elfo Puccini ottobre 2016: Otello

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L’Elfo ritorna a Shakespeare e lo fa aggiungendo un nuovo allestimento al suo già ampio repertorio delle opere del Bardo: Otello, la nuova regia firmata da Elio De Capitani e Lisa Ferlazzo Natoli, fresca di debutto, rimarrà in scena fino al 13 novembre.
È un Otello dicotomico, quello dell’Elfo. Divide. Separa. È bianco e nero insieme. Un Otello modernissimo, che a tratti infastidisce per la decontestualizzazione storica, ma straordinariamente vicino al Globe Theatre shakespeariano: un 2016 che parla con la cadenza del 1604.
Vicinissima all’età elisabettiana la scena dove tutto è a vista, addirittura uscite di sicurezza, estintori e macchinisti, nell’artificialità della macchina teatrale. Una fune viene slegata e il fondale si piega, i fari spuntano dai lati, l’occhio nota l’attore ben prima che entri in scena, eppure la splendida creazione di Carlo Sala non potrebbe essere più contemporanea: plastica e metallo parlano di un futuro decadente come l’intonaco ammuffito delle facciate veneziane. In continuo dialogo con la scena le luci, essenziali, ridotte a una gamma cromatica minimale, di Michele Ceglia. Ma modernissimi anche i costumi, sempre di Sala, che spostano l’azione in un non meglio comprensibile inizio Novecento austroungarico: volutamente fastidioso per il pubblico, privato del contesto storico? La dicotomia continua.
Ma forse l’elemento che più colpisce, talvolta con la dolcezza di una parola aulica e desueta, talvolta con la durezza dell’insulto più crudo, è la nuova traduzione del testo, curata da Ferdinando Bruni, che non risparmia troie, cazzi e puttane a una frase poetica intessuta di metafore e delicatezze: abituati come siamo alla traduzione letteraria del teatro che potremmo definire classico, l’Elfo decide di sfidarci e di riportarci alla più carnale sostanza della parola shakespeariana, in bilico tra lingua alta e bassa, nell’espressione complessa della complessa natura umana.
I due registi, De Capitani e Ferlazzo Natoli, riescono a tenere unite le molte e mille anime di questo Otello, giocando consapevolmente sul registro dell’allestimento: tragedia? certamente, una delle più celebri dei drammi del Bardo di Stratford-upon-Avon, ma in più momenti il pubblico non riesce a non sorridere, talvolta ridere apertamente. È un gioco, quello che va in scena, le convenzioni sono scoperte e l’interpretazione degli attori fa l’occhiolino al pubblico senza perdere nulla della drammaticità del testo che ha nel silenzioso e freddissimo epilogo il suo apice emotivo.
Centro della messinscena De Capitani, interprete sul palco dei tormentati panni del protagonista che dà il nome al dramma. Accanto a lui uno straordinario Federico Vanni, glaciale Iago che, da vero burattinaio della vicenda, gioca con la vita e la morte di tutti; suscita il riso, sorprende e, infine, tace. “Non chiedetemi niente. D’ora in poi io non dirò più una parola” conclude senza mostrare il minimo pentimento. Spicca su tutti la giovane Camilla Semino Favro, già Sarah in Harper Regan e ora giocosa, vitale, commovente Desdemona che accetta la totalità dell’esperienza d’amore: di lei rimarrà il delicato “canto del salice” a perdersi in una platea muta. Con lei, conferma di bravura e versatilità, il Cassio di Angelo di Genio. E poi Cristina Crippa, Alessandro Averone, Gabriele Calindri, Massimo Somaglino, Carolina Cametti e Michele Costabile.
E quando nel silenzio un sudario di volgare plastica copre la carneficina in un’atmosfera di freddo obitorio e cede il passo al sipario, lo spettatore non può uscire dalla sala indifferente. L’Otello dell’Elfo piace o non piace, ma non lascia neutrali: questo ripensarci dopo la rappresentazione, citando Luca Ronconi, “vale il prezzo del biglietto”.

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