Un mese, trenta giorni per cambiarmi. Capitolo primo

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Maria è in bagno e si lava i denti in accappatoio. Ha messo una canzone ma la ferma. La fa partire da capo così può ballarla di nuovo; ancora in accappatoio si asciuga i capelli e canta, urlando a bassa voce. Ma il ritorno in città dopo anni non è facile e Maria sente il bisogno di urlare.

Nessun evento particolarmente rilevante: un matrimonio, una morte o una nascita mi avevano costretta a tornare e ora, dopo quattro anni di disintossicazione dalla mia città, avevo deciso di rimettere piede a casa. Sono atterrata il 4 giugno da Madrid con un’angoscia addosso indescrivibile. In aereo avevo incontrato una signora, mia vicina di posto. Mi disse che era andata a trovare suo figlio e che, se l’avessi mai rivista da lontano, avrei dovuto urlarle “piccola”: lei sicuramente si sarebbe girata, perché tutti la chiamavano così.
Ecco, mio padre non era mai venuto a trovarmi. Ad un certo punto li ho visti, tutti impacciati che non sapevano da che parte guardare per non perdersi il mio arrivo. Mi hanno fatto un po’ di tenerezza, quella positiva intendo, e così ho subito rimediato alla loro goffaggine urlando:
“Papà, Cesare! Sono qua.”
Mio padre si è girato di colpo e ho notato che avrebbe voluto correre, ma non essendo più scattante come una volta ha soltanto urlato in risposta il mio nome, ancora prima di vedermi.
“Maria! Cesare, corri a prenderle le valigie: vedi che non riesce a portarle!”
Cesare è corso ad abbracciarmi. Ha addirittura pianto: o perlomeno, ha versato due lacrime che, se sommate a quelle che aveva lasciato scorrere al funerale della mamma, diventano quattro in totale. Poi ho abbracciato mio padre, anche lui sembrava aver pianto, forse quando ero ancora lontana. Aveva avuto tempo per asciugarsi i goccioloni, sicuramente, perché gli rimanevano solo gli occhi lucidi.
“Hai tagliato i capelli, sembri più piccola. La mia piccola Maria”.
“Si, li ho tagliati. Madrid è troppo calda per i capelli lunghi.”
In realtà questo non era il vero motivo: lo avevo fatto perché credevo che la felicità avesse i capelli corti.
Ci siamo avviati verso la macchina. Eravamo talmente entusiasti da non sapere cosa dirci.
Io avevo considerato l’eventualità che le cose negli anni sarebbero potute cambiare ma la complicità che ora rivelavano mio padre e mio fratello e l’eccitazione che provavano nel rivedermi, e che io non seppi restituire dignitosamente, mi hanno indispettita.
Ho cercato però di non pormi troppe domande, lasciando al tempo la libertà di agire su di noi: per godermi il mio rientro era così che dovevo fare.
Mi sarei fermata per un mesetto, un lasso di tempo che sapevo non potesse volare.
Non avevo mai constatato questa dote del tempo, anzi direi che le vicende della mia vita si erano dimostrate sempre troppo esaustive. Ma lo stremo non mi dispiaceva, infondo cosa ci si guadagna con la velocità?

In realtà ho mentito: c’è un motivo se sono tornata. Mio padre me lo chiedeva da un po’ di tempo e ho dovuto coronare questo suo desiderio. Enzo era infatti uno di quegli uomini che ottengono ciò che vogliono e aveva insistito usando come scusa la sua età avanzata.
Io conoscevo bene mio padre e sapevo che non stava male e che non sarebbe morto a breve, ma ammetto di aver colto l’occasione per salutare di nuovo il mare ligure.
La stessa sera in cui sono tornata a casa, svuotando la valigia, mi sono chiesta ancora quante notti avrei dormito da sola e ne avevo contate circa 19.300, considerando che prevedevo di vivere almeno fino a 80 anni. Ho pensato poi a quante notti avevo dormito con mio padre e non ne ricordavo neanche una. Sicuramente sarebbero state meno di quelle che avrei passato in solitaria, così, apparentemente di scatto, decisi di dormire con lui
Mio padre era stato un matematico: contare in famiglia è normale.

Illustrazione di Alice Benza

Il giorno dopo mi sono svegliata per ultima: Enzo aveva preparato il caffè, si era svegliato prima di tutti per andare giù al porto a comprare le brioches.
Devo averlo reso felice ho pensato mentre guardavo fuori dalla finestra le onde fondersi con la sabbia e questo ha reso felice anche me.
In base alla posizione del sole poteva solo essere mezzogiorno, a me però sembravano le 6 del mattino. Oramai avevo perso la mattinata dormendo.
Quando mi sono proposta di aiutare per il pranzo mio padre mi ha detto che saremmo stati ospiti di Diego, Lucia e dei loro genitori. Erano i miei amici d’infanzia. Ho pensato che forse si erano offesi perché non li avevo avvisati del mio ritorno.
Il pranzo è passato veloce e indolore: loro parlavano tanto, io un po’ di meno.
“Ma dai Maria! Raccontaci qualcosa!” esclamavano incuriositi come fossi tornata dalla guerra.
Io non avevo niente da dire: si sa che dopo un po’ tutto diventa abituale. Ho raccontato loro la mia quotidianità, ma li ha delusi, volevano sapere di più… E a quel punto non potevo fare altro che mentire. Però non mi sono sforzata: per mentire decentemente ci vuole impegno e in quell’occasione non valeva la pena di faticare. Così ho limitato le mie risposte e ho deciso di deliziarli con il mio raro sorriso.

Nel pomeriggio sono scesa in spiaggia, non avevo voglia di prendere il sole; volevo solo sentirlo colpire la mia pelle. Ho fatto alcune telefonate mentre scavavo con la mano destra nella sabbia che riempiva le mie unghie.
Ho chiamato Elena che sembrava contenta, ma sentendola indaffarata non mi sono dilungata troppo.
Poi sono passata a Fabio: mi ha detto che era a Lugano per lavoro, anche lui sembrava entusiasta del mio ritorno.
Infine Matilde. Era la più felice di tutti e mi ha dato appuntamento per la sera stessa.
Sono tornata a casa, ho mangiato velocemente e ho chiesto a Cesare se sarebbe voluto uscire con noi.
“No, tu vai pure, preferisco stare qui.”
Le parole di mio fratello sono sempre controllate, i suoi sguardi non tradiscono messaggi svisceranti o sottintesi e la sua compostezza a volte mi da sui nervi. Da quando ci conosciamo, cioè dalla sua nascita, non l’ho mai visto euforico.  Lui sapeva esprimersi in un modo diverso che non riuscivo ancora a decifrare.
Se io sapevo contare all’infinito, Cesare sicuramente contava le sue parole.

Matilde mi aveva dato appuntamento in un posto “nuovo” dove non ero mai stata. Sapevo già che nella mia città i nuovi posti erano quelli più affollati e che poi si spegnevano di gente, come candele. Ero convinta che avrei incontrato l’intera mia generazione, i ventinovenni instupiditi: vecchi giovani già in là verso la via della ridicolezza.
Ma quando sono entrata non ho riconosciuto nessuno e questo devo dire che mi deluse un po’. Almeno così mi sarei potuta concentrare su quello che Matilde aveva da dirmi e su quello che dovevo raccontarle io senza stare sull’attenti, nell’attesa che qualcuno si avvicinasse e mi venisse a salutare. Diceva di star bene e di essere felice, che ora si vedeva con Luca, quello di tanti anni fa. Io la ascoltavo e appoggiavo le sue scelte perché erano quelle della vita della mia amica.

Non siamo tornate a casa tardi, il giorno dopo lei avrebbe dovuto lavorare ed io avevo promesso a mio padre che ci saremmo fatti un giro in bici al mare. Uscendo dal “posto nuovo” Matilde di colpo, spaventandomi, aveva esclamato:
“Ma, Maria, che stupida che sono! La prossima settimana andiamo tutti in campagna da Gio’ per un po’ di giorni, gli hai detto che sei tornata?”
“No, non l’ho ancora sentito”.
“E cosa aspetti, devi venire pure tu, così passiamo qualche giorno tutti insieme”.
Gio’ era, come tutti gli altri, uno mio caro amico dell’adolescenza. Da quando avevamo 17 anni ogni estate passavamo almeno una settimana nella casa in Toscana dei suoi genitori. Loro avevano protratto questa tradizione, ma senza l’intento che lo diventasse. In Toscana si divertivano, si riposavano e si raccontavano quel che accadeva nelle loro vite se queste non gli permettevano di incontrarsi durante il resto dell’anno. Io, da quando vivevo a Madrid, non avevo più partecipato a questi convivi. Matilde evidentemente aveva avvisato subito Gio’, temendo che io non lo facessi. E Gio’ non aveva potuto fare altro che chiamarmi il giorno dopo, per chiedermi come stavo e invitarmi in campagna.

Pochi giorni con tutti i miei amici mi avrebbero fatto bene. Ho accettato.
Neanche Gio’ si era dimenticato di me.

Sono in bagno e mi lavo i denti ancora con l’accappatoio addosso. Fermo la mia canzone preferita del momento, non mi basta ascoltarla una sola volta, devo metterla da capo. Ancora in accappatoio mi asciugo i capelli e urlo a bassa voce per non spaventare mio padre.
Mi sto preparando, oggi partiamo per la Toscana.

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