Quello che ti porti dentro in tempo di guerra

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La prima cosa che riesco a ricordare è la tenera carezza di mio padre.
Ricordo di alcuni suoni, singoli, scollegati, anche sgraziati, ma ero troppo giovane per capire cosa fossero.
Ricordo il buio, un lungo periodo di buio, in cui aspettavo non potendo fare altrimenti; non avevo nemmeno la piena coscienza di essere al mondo.
In seguito ci fu la luce, calda, accecante, esattamente sopra di me, come un bagliore divino disceso dal cielo, che mi rese consapevole di ciò che ero. Riuscii finalmente a vedere il mondo: stavo sopraelevato, ma non sul punto più alto della stanza e davanti a me si estendava un caldo mare di sedie color porpora con venature dorate. Non molto tempo più tardi venni a conoscenza di trovarmi nel Teatro Nazionale di Praga, un posto incantevole, di una ricchezza e un’eleganza uniche; quello per me divenne sinonimo di casa.
Qualcuno mi si avvicinò, poggiò delicatamente le sue dita sui miei tasti per poi farle scivolare con leggerezza per tutta la tastiera. Sedutosi, adagiò entrambe le mani sui tasti e, dopo un lungo respiro, incominciò ad accarezzarli: ad ogni pressione sui tasti sentivo come un battito dentro me, cui seguivano delle potenti vibrazioni che mi scuotevano. Sentii nuovamente quei suoni, ma stavolta sembrava che fossero legati da un senso. Poco a poco riuscii a comprendere quel linguaggio e ne capii l’origine: quella si chiamava musica e veniva da me, da dentro di me, ma non ero io a controllarla; era la mia voce, ma non ero io a parlare.
Sul seggiolino sedeva un uomo non molto alto, di mezza età, di bella presenza e con un lungo naso. Le sue dita erano lunghe e leggere, correvano sapientemente lungo la tastiera, sapendo perfettamente dove andare. Con grande maestria, una mano rincorreva l’altra lungo i miei 88 tasti senza neanche guardare uno spartito, senza mai aprire gli occhi. Lui conosceva davvero la musica, se la portava dentro, ma senza di me non sarebbe riuscito a dire niente. Come il poeta ha bisogno della penna per scrivere le sue poesie, il pianista aveva bisogno di me.
In quella occasione comunicai per la prima volta con qualcuno. Fu un vero dialogo: anche se io non lo avevo mai visto, sembrava che lui mi conoscesse alla perfezione. Man mano che suonava, imparavo cos’era il mondo e la vita, comprendevo gli uomini, la loro natura, i loro sentimenti. Era così malinconico, portava un grosso peso nel suo animo che lo buttava giù, ma nonostante ciò, scendeva sui tasti deciso e con vigore per poi risalire su con altrettanta energia.
Suonò il Notturno in do diesis minore di Chopin.
Dopo qualche altro brano, quando si fermò, tutto tacque per qualche istante. In quel momento, dopo aver staccato il suo ultimo dito dalla tastiera, le mie corde smisero di vibrare, ma io non smisi più di sentire quella musica dentro me.
Ci furono gli applausi, scroscianti applausi per lui, per noi. Fece l’inchino più volte rivolto al pubblico e se ne andò via. Non lo rividi mai più.
Nel giro di non molto tempo ne arrivarono altri: con tutti sentii la stessa cosa e ogni volta mi arricchivo di nuova musica. In quei momenti riscoprivo cosa fosse la gioia. Ma non fu sempre così con tutti: ho incontrato tanti pianisti che, nel loro modo di suonare, contraddicevano la loro intenzione, musiche cariche di gioia ma animi sofferenti. Sembrava che nessuno tra il pubblico se ne accorgesse. Come sempre, finito il concerto, il pubblico applaudiva e il pianista, come di consueto, si alzava e faceva un inchino per poi andarsene via… Non so perché, ma furono pochi quelli che rividi.
Le cose cambiarono dopo qualche tempo. All’inizio mi accorsi di una crescente preoccupazione nei pianisti: loro erano lì, seduti sul seggiolino che pigiavano sui tasti, ma era come se non ci fossero più col cuore e con la mente. Erano altrove, lontano dal teatro, lontano da Praga. Ebbi come la sensazione che molti di loro si sentissero come in trappola: riuscivo a percepire tutto questo dal loro modo di suonare.
Vennero da me sempre meno persone, fino al giorno in cui mi chiusero per un’ultima volta; così restai nel teatro, nuovamente al buio, nuovamente solo. Ma la musica non era andata via del tutto: era come se le corde ancora mi vibrassero dentro, ma non producevano alcun suono che gli uomini potessero sentire.
Il mondo fuori dal teatro andava avanti senza di me. Avevo sentito parlare di una guerra devastante e temetti che, in questo contesto, gli uomini non avessero più bisogno della musica per vivere, che i pianisti non avessero più bisogno di me per comunicare.
Il silenzio fu rotto da un uomo alto con una divisa verde scuro, sporca e logora. Arrancò lentamente verso di me e si accasciò ai miei piedi. Lentamente, riuscì a rialzarsi e si sedette sul seggiolino. Appoggiò la sua pistola sopra di me e mise le sue mani in posizione per suonare. In quel momento non mi sembrava vero: quell’uomo aveva combattuto chissà per quanto tempo, chissà quali cose aveva visto, sentito, vissuto. Io stavo per sentire tutto dentro di lui, dentro il suo animo ottenebrato dalla guerra. Riuscì a premere solo qualche tasto, poi scoppiò in lacrime. Non avevo mai visto una cosa simile: quelle note avevano un senso, ma erano vuote, non erano più capaci di comunicare e lui se n’era accorto. Si asciugò con la manica le lacrime sul viso e riprese in mano la pistola.
Ci fu un boato fortissimo che si disperse nel teatro per qualche secondo, seguito da un tonfo sordo. Calò nuovamente il silenzio.
Qualche giorno più tardi degli uomini entrarono nel teatro. La guerra era finita e quei soldati avevano liberato la città dall’oppressore. Presero il corpo del militare accasciato a terra e lo portarono via.
Uno di quegli uomini restò nel teatro da solo e mi fissò per qualche istante; prese posto sul seggiolino e rimase in silenzio a guardare la tastiera e le sue mani, prima l’una, poi le altre, per diverse volte, come se le stesse interrogando. Posò le dita sulla tastiera e, poco a poco, la sua musica prese forma. Vidi i peggiori orrori che la guerra può generare perché quel soldato se li portava dentro. In mezzo a tutta quell’oscurità c’era una flebile luce, la speranza di un nuovo inizio.
E lì capii la sostanziale differenza tra i due soldati: non stava nella forza dei loro ideali. Solo uno di loro portava dentro di sé la speranza, portava dentro di sé la musica e il desiderio di esprimerla nei giorni a venire.
Suonò il preludio in do diesis minore di Rachmaninov.

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