Quanto ancora da camminare?

Pubblicato il Pubblicato in Ayas Littéraire 2017, Critica, Eventi, Letteratura

Quando la montagna chiama, non è possibile ignorarla, che sia per una scalata o per parlare di libri con qualche amico. Paolo Cognetti torna in Val d’Ayas nelle vesti di scrittore per raccontare “Le otto montagne”, il romanzo che gli è valso il Premio Strega 2017. L’incontro, fissato per martedì 8 agosto alle 21.15 al Salone di Monterosaterme di Champoluc, inaugura la prima edizione della rassegna Ayas Littéraire che quest’estate scandirà in tre serate la stagione culturale della valle. Dominata dal massiccio del Monte Rosa, è proprio lei il teatro del legame tra Pietro e Bruno, tra Pietro e il padre, protagonisti di silenziose esplorazioni che rivelano una montagna severa e austera, che non perdona imprudenze ed esitazioni. Dare spazio alla montagna in un romanzo infatti non significa obbligatoriamente celebrarne la “bellezza disumana”.

“Io non provavo più alcun interesse per quel che stavamo facendo. […] Tutta quella bellezza disumana mi era indifferente. Avrei voluto solo che qualcuno mi dicesse quanto dovevamo ancora camminare”. Questo è quanto balena nella mente del giovane Pietro durante una delle prime ascese. E dire che la montagna non è solo natura mozzafiato, come dire che è un modo di vivere la vita, è tutt’altro che vuota retorica: da lei si può davvero imparare qualcosa, valdostana o nepalese che sia. Come Cognetti si è premurato di specificare appena dopo l’assegnazione del Premio Strega, per un montanaro “natura” non significa nulla: a significare sono gli abeti e i larici, il mirtillo e il ginepro, più su la prateria, i torrenti e le torbiere e ancora oltre le pietraie, i licheni e i canaloni innevati. Quella alpina è una filosofia di vita che affonda le radici nella terra, nell’acqua, nelle rocce e poi si leva verso le vette. È da lì, infatti, che arriva come un torrente in piena il futuro e il padre di Pietro desidera che lui lo capisca: “Facciamo finta che l’acqua sia il tempo che scorre” − lo interroga − “Se qui dove siamo noi è il presente, da quale parte pensi che sia il futuro?”. Saranno proprio le carpe del torrente a suggerirgli la risposta: “Tutte le cose, per un pesce di fiume vengono da monte. […] Il passato è a valle, il futuro a monte”. Insomma, le sorti dell’uomo e della montagna sono più legate di quanto possa apparire.

Il fatto che la montagna sia maestra e palestra di vita non significa tuttavia che sia sufficiente prestarle attenzione per imparare a vivere. La montagna è infatti riservata, reticente tanto quanto lo è il padre di Pietro: “sembrava sempre che non potesse darmi la soluzione ma appena qualche indizio, e che alla verità io dovessi per forza arrivarci da solo”. Insomma, nessuno può dire con precisione a chi cammina quanto ancora dovrà camminare, a chi vive come deve vivere. Le regole già impostate sono poche e sintetiche: “uno, prendere un ritmo e tenerlo senza fermarsi; due, non parlare; tre, davanti a un bivio, scegliere sempre la strada che sale”. Il resto è delegato all’intelligenza del camminatore, del lettore, dell’uomo. Si tratta di un’intelligenza logico-matematica, come quella che l’autore condivide con Pietro, ma anche dell’intelligenza emotiva, della capacità di ascoltare e di vedere, di esperienza e ancor più di intuizione. E tutto ciò vale a 4000 metri, con i ramponi conficcati nel ghiaccio, vale a New York, che Cognetti ha conosciuto, e vale nella vita di tutti i giorni: quell’educazione a forza di scalate e malesseri da altitudine − perché anche questo è montagna − e quell’eredità di roccia, neve e pini − l’unica donatagli da suo padre − aiutano Pietro, e con lui il lettore, nonché Paolo stesso, a trovare o ritrovare il sentiero, il proprio posto nel mondo.

Non è un caso che una giuria di liceali gli abbia assegnato lo Strega Giovani: il libro parla anche, soprattutto, di loro. Adolescenza e crescita, malinconie, solitudine e amicizia, assenza dei genitori e fortune trovate o perse sono protagoniste ricorrenti dei lavori di Cognetti − da “Manuale per ragazze di successo” a “Una cosa piccola che sta per esplodere” a “Sofia si veste sempre di nero”, sino a “Il ragazzo selvatico”. E non è raro che, come accade ne “Le otto montagne”, dietro i tormentati personaggi si celi il suo sguardo, la sua esperienza: è questo, anche, che conferisce una tale vividezza alla vicenda, insieme alla qualità della pratica incessante e sorvegliata della scrittura. Nella sua ottica infatti l’arte dello scrivere -a proposito della quale ha pubblicato per MinimumFax il manuale ”A pesca nelle pozze più profonde”- è molto più che genio e sregolatezza, anzi, è piuttosto disciplina e costanza, alimentate da un torrente di modelli assimilati e, cosa non secondaria, poggiate su una montagna di parole scartate. È “un lavoro a togliere” che richiede silenzio e pazienza, come li necessita il falegname davanti al legno grezzo e il matematico alle prese con il calcolo differenziale, due carriere che per qualche tempo sono balenate nella mente del giovane Paolo. Ma indispensabile è anche un bagaglio infinito di letture che aprano gli occhi e il cuore: non si inizia a scrivere senza prima aver letto e forse non si inizia nemmeno a vivere. E, se è vero che “la prima cosa che la lettura insegna è come stare da soli” − in quanto amante della letteratura americana Cognetti conosce bene Jonathan Franzen − allora con la lettura giunge necessariamente anche il bisogno di fare i conti con se stessi: a questo punto c’è chi comincia a scrivere e chi se ne va in montagna. Paolo Cognetti ha percorso entrambe le strade.

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