Il principio d’inerzia. Capitolo uno: A un certo punto del viaggio

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Capitolo uno:
A un certo punto del viaggio

La colpa è tutta del caldo. Ho promesso a me stesso di non dormire, sì, bè, di farlo il meno possibile.
A me il caldo non piace, eppure, una giornata così, quando arriva alla fine, sembra proprio chiamarlo.
Non posso distrarmi. Appoggio le ginocchia al sedile davanti, mi rilasso un pochino, ma non dormo. Distrarsi significa perdere. Mi va a fuoco la faccia, colpa del vento, dai e dai tutto il giorno, e le mani sono fredde sulle guance, ma sulle ginocchia no, sulle ginocchia diventano calde anche loro; e la testa ciondola fino a trovare le sue calde compagne. Ma non dormo, no, solo un piccolo sonnellino. Basta riposare gli occhi e torna l’eco delle lezioni imparate sugli animali dell’oceano, quando ancora faceva freddo, quando la mia schiena non si arricciava, calda, come burro al sole. E il tepore qui dentro è sempre più…
– MIRA, MIRA! Por la ventana!- dice all’improvviso Manolo, la nostra guida.
In un attimo sono sulle ginocchia di Alberto, il mio migliore amico, più veloce che posso spanno il vetro dallo strato di condensa, lo sapevo che il caldo rallenta e basta! E…uno, due…cinque, sei guanachi sfrecciano a lato della nostra strada.
-Estos fueron el fast food de los endigenas- Commenta Manolo ridacchiando.
Eccolì là, a zampettare avvolti dal fascino selvaggio della radura. Fosse per me sfonderei il finestrino, altro che caldo.
– Sei sempre il solito, mai una volta che tu riesca a scattare le foto al momento giusto- mi rimprovera Alberto.
Faccio finta di niente. In realtà la mia non è sbadataggine. Rispondo con un sorriso, fingo di accettare la critica, Alberto non capirebbe.
Non sono tipo da immortalare l’attimo con una macchinetta. A me piace il brivido del momento. Volere fermare un attimo per sempre…perché?! Non sopporto che le cose abbiamo fine. E poi, riguardando gli scatti fatti, non c’è traccia dell’emozione, della vita che era quell’immagine. Io fotografo solo quando è tutto finto: composizioni, immagini astratte, pigne recuperate dai boschi e disposte in labirintici percorsi. Cose così. Una volta ho vestito il mio cane con gli abiti di nonna Fanny e gli ho fatto un servizio per una stupida rubrica.
Forse ha ragione Alberto, non sono capace di scattare al momento giusto. O forse è solo questione di priorità.
A ogni modo, il nostro pullmino continua a saltellare per la strada sterrata in direzione Puerto Madryn. Gli ultimi due giorni sono stati dedicati alla Penisula Valdès, una riserva naturale sulla costa atlantica dell’ Argentina. Qui non ci sono macchine, da dove vengo io non si può neanche immaginare una via senza macchine. Milano è SOLO macchine. Qui la gente si muove a cavallo o su carretti trainati da ciuchi. Qui animali e uomini vivono insieme, non solo nella stessa casa, ma nelle stesse strade e sulle spiagge.

Lo so perché questa notte abbiamo dormito là fuori. Tutto è stato organizzato in modo che potessimo vedere gli animali, escono più volentieri al tramonto. Manolo ci ha insegnato che l’unico modo per aggiudicarsi il diritto di partecipare ai riti animali è quello di diventare invisibili ai loro occhi. Così abbiamo piantato cinque tende, niente fuochi, niente rumori, solo qualche panino mangiato con il cuore in gola al vedere le code di balena spiccare contro l’orizzonte. Ero certo stessero danzando, a guardarle sentivo una musica, così ho preso il binocolo. Vicino a quelle enormi code ne ho viste altre più piccole.
-Ragazzi, state assistendo a una lezione di saluto – ha detto Manolo.
Alberto strabuzzava gli occhi con il prosciutto a metà bocca e le briciole che gli impanavano le labbra, poi una piccola smorfia ha contratto le sue guance. I tentativi di rimanere a galla ci hanno ricordato quanto lontane siano le nostre mamme. Malinconia e stanchezza hanno fatto sprofondare tutti nei sacco a pelo, tutti tranne me.

Non ho potuto farne a meno. È successo un’altra volta: fantastico spesso, come se vivessi realtà alternative a quella in cui mi trovo. Quando inizio, l’immaginazione vola lontano, veloce, spesso cerco di rincorrerla per riportarla a casa, ma mentre la seguo sento il cuore battere forte, la bocca spalancarsi e gli occhi tanto grandi da lacrimare. Allora continuo, insieme a lei.
Così, ero in cerchio con i miei compagni, ma un attimo dopo ero balena, un muso lungo e incrostato, una secolare mamma intenta a istuire i propri piccoli sulla presa al largo.

Miei cari, qui siamo specie protetta, non dovete preoccuparvi quasi di niente, ma là fuori i pericoli sono tanti.
Numero uno: i predatori. Quelli sì che ve li troverete sempre tra i piedi. Diffidate soprattutto delle orche, non fatevi ingannare dalle discendenze, loro sono una specie mista, la chiamano bastarda, e quando hanno fame non badano alla genetica. Il lato balenesco cede alla parte squalesca. Certo, noi siamo molto più grandi di loro, ma per questo assai lente e facili da individuare! Di buono c’è che difficilmente si avvicinano alle coste rocciose, loro sfruttano l’alta marea per rapire i cuccioli di foche, leoni e elefanti marini. Approfittate quindi di posti come questi per mettere su famiglia e far crescere i vostri cuccioli.
Numero due: i cacciatori. In pochi paesi è concessa la caccia alle balene, se proprio a qualcuno di voi verrà voglia di visitare le coste asiatiche, rimanete in compagnia di locali che sappiano condurvi in luoghi sicuri.
Tre: le barche. Non a tutti gli uomini piace mangiarci, ad alcuni interessa solo osservarci. Qualcuno, però, non prende bene la mira, basta poco alla chiglia delle barche per provocarci ferite, spesso mortali. Quando sanno stare alla giusta distanza noi ringraziamo con la pinna.
Come dici piccolo? Oh no di lui non ti devi preoccupare. Questo pennuto cerca solo un compagnia. Si chiama gabbiano, sono buffi uccelli che adorano punzecchiare le nostre croste, spesso ci trovano piccoli animaletti di cui si nutrono. Quando esagerano basta spruzzare una colonna d’acqua dal buchino che ti si sta formando sulla schiena e loro cambiano aria. Se hanno voglia di giocare tornano e con le zampette ti tappano il buco e…

Parla parla, alla fine mi sono addormentato.

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