Il principio d’inerzia. Capitolo cinque: Come spiegarlo?

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Dieci ore di viaggio non sono bastate, quel boccone è ancora lì.
Paura non ne ho. Anzi sono molto eccitato.
Dopo avere occupato il posto accanto a Felù ho dato un morso al panino avanzato dal pranzo. Credo abbia preso la strada sbagliata, non fa altro che tormentarmi.
Felù non ha detto neanche una parola. Strano, alla stazione mi era sembrata una signora dalla lingua lunga. In compenso, sorride. Guarda le cose fuori dal finestrino con molta attenzione, le sue pupille brillano mentre si muovono lungo i confini. Sembra fiera della sua terra, regno di bellezza e pace. Immagino che la nostra destinazione sia casa sua, ma non gliel’ho chiesto: lei non fa domande a me, io non le faccio a lei.

C’è una signora davanti a noi, sprofondata nel sedile. Ogni tanto muove la punta dei piedi e le braccia in direzione del piccolo passeggero che le siede accanto, la testa per guardare la televisione appesa nel corridoio centrale. Il bambino salta di continuo, dà un bacio alla donna, torna a sedere, le fruga nella borsa, prende fogli e pennarelli, fa qualche scarabocchio, butta tutto a terra, fruga di nuovo nella borsa, cerca la merenda. La signora lo riprende: gli altri passeggeri vogliono riposare! Ma lo fa con un tono dolce, calmo. Per tutto il viaggio non le ho mai sentito alzare la voce.
Anche mia mamma è fatta così. Se qualcosa non va bene, mica strilla, anzi, a volte nemmeno parla. Le basta lanciarmi uno dei suoi sguardi fulminanti. La signora qui davanti non arriva neanche a tanto.
Il piccolo comincia a esaurire le energie, pende verso la mamma, le sale in grembo. La donna si limita ad allargare le braccia e lui si addormenta. Lei chiude la presa, appoggia la testa a quella del figlio e chiude gli occhi.
Il boccone vuole proprio farmela pagare.

Felù si alza, dice qualcosa al conducente, che poco dopo accosta. Poi mi fa un segno: devo seguirla. Scendiamo su una strada infinita e polverosa, l’autobus se ne va e noi diventiamo minuscoli. Dopo cento passi in piano, abbandoniamo la sterrata e infiliamo un piccolo sentiero in discesa. Ci avviciniamo a quello che mi sembra un canyon: c’è un fiume, scorre come un biscione da chissà quanti chilometri, è talmente lungo che non riesco a capire da dove arrivi, verde come la giungla, forte come una cascata. E poi, là infondo, spuntano alcuni tetti. Le radure non sono più di un solo colore, ma disegnate da righe che finiscono tutte nello stesso punto.
Guardo Felù e qualcosa nel suo corpo lento e pesante si trasforma. Camminavamo piano, come faccio in alta montagna con mia zia Rinaldin per non sprecare energie, invece ora Felù ha un passo veloce e non accenna a diminuire il ritmo. I suoi piedi toccano per terra al massimo per una frazione di secondo: sembrano le ruote della mia bici quando vado veloce in discesa. Quel disegno laggiù dev’essere casa sua. Continuo a camminare nella scia, attento e curioso. Mi sento un animaletto dopo mesi di letargo, finalmente fuori dalla tana, che si sgranchisce le gambe sospettoso di un pericolo in agguato.

Ricordo la prima volta che ho accarezzato un cane: ho visto un’invitante palla di pelo sdraiata a terra e mi ci sono lanciato addosso. Mio padre mi ha preso al volo per un braccio.
“Cosa ne sai, magari a lui non piace essere toccato”, ha detto serio. “Impara a rispettare lo spazio altrui!”. Mi ha fatto sedere davanti al cane e ha accompagnato il palmo della mano verso il naso del peloso, che mi ha dato qualche leccatina di gradimento. Poi ha chinato il suo testone in modo che lo potessi accarezzare.

Dopo circa mezzora di buon passo, arriviamo in una piazza tonda. Al centro una fontana zampilla pochissima acqua, unico indizio di vita, il resto sembra abbandonato. Inforchiamo uno degli stradotti che escono dalla corte. Le porte aperte delle case fanno intravedere strumenti e mobili ammassati senza logica, come se un uragano le avesse appena attraversate. Secchi rovesciati, sedie in mezzo al fango, pale e rastrelli adagiati sul terreno davanti agli ingressi, quaderni colorati in mezzo agli orti pieni ancora per metà, scarpe sui divani, abbeveratoi per animali sotto le finestre.
Sento un campanellino avvicinarsi. Una capretta ci corre incontro, ma non mi guarda neanche, va dritta tra le gambe di Felù, che si china, afferra le corna e stampa un bacio sulla fronte dell’animale. La capra si gira verso di me, allunga il collo ruotandolo un po’, come se i suoi occhi fossero troppo distanti per guardarmi tutto in una volta. Sembra un po’ offesa per il mio arrivo, batte gli zoccoletti e saltellando si allontana. La donna mette una mano dietro la mia testa e mi conduce verso l’entrata di casa, ma la strada è troppo stretta, in due non ci passiamo. Quando la porta si spalanca, compaiono, in fila, una bambina, una giovane coppia e un anziano signore. Che bella famiglia ha Felù! penso mentre veniamo stretti in un cerchio di abbracci.
Finite le smancerie, i grandi mi fanno accomodare in una stanza piena di tappeti e giochi di legno, lasciano con me la bambina e si ritirano in cucina. Il clima non mi sembra dei migliori, non vorrei aver messo Felù nei guai… e se mi rispediscono in aeroporto?
La bimba sembra così tranquilla… legge il suo libricino a gambe incrociate. Per lei è tutto normale. Se stessero dicendo qualcosa di preoccupante, lei se ne accorgerebbe, farebbe qualcosa per farmelo capire, no? Mi avvicino e la piccola sposta il libro verso di me.

La porta della cucina si apre, ci chiamano per la cena. La zuppa è molto buona, mi sorridono tutti. Felù fa il giro di presentazioni e mi chiede se ho una famiglia anch’io. Faccio di sì con la testa. Poi mi chiede se i miei genitori sanno dove mi trovo. Faccio di no con la testa. Ramiro, il marito di Felù, lascia cadere il cucchiaio nel piatto. Ha una faccia preoccupata. Lei finalmente mi svela gli accordi presi poco prima: posso restare solo se avviso i miei genitori. Un brivido mi fa scrollare la testa. Felù mi appoggia una mano sul ginocchio.
“No te preocupe, usted tendrà toda la noche para pensar en ello”, dice poi.
Mi spiega che da qualche mese la linea telefonica è interrotta, un fulmine ha troncato i cavi. Partiremo domani per El Bolson e da lì potrò chiamare. E’ divertente interpretare i gesti che Felù utilizza per accompagnare le parole, perché devo entender todo.

La mattina dopo mi sveglio in una palla di lenzuola e coperte. Il cuscino non c’è più, mi tuffo dal bordo del letto per cercarlo e il mio naso finisce su un piede. Emilia è lì impalata, stringe il suo coniglio di pezza e mi fissa con un sorriso di cioccolato.
“Hola, buenos dia” bofonchio. Lei scappa imbarazzata.
Ricomposto il letto vorrei vestirmi ma dei vestiti neanche l’ombra: vado a tentoni verso la cucina. Lungo il tragitto vedo i miei calzini svolazzare fuori dalla finestra. Teresa, la figlia di Felù, deve aver fatto il bucato di prima mattina e ha anche preparato una colazione super: churros, pane, tostados, qualche uovo sodo e biscotti fatti in casa da accompagnare con dulce de leche, burro e marmellata.
La donna mi accarezza la fronte e si siede accanto a me mentre riempio la pancia. Poi mi accompagna in sala, invitandomi a giocare con Emilia mentre i miei vestiti finiscono di asciugare.
Teresa non fa in tempo a uscire dalla stanza che Emilia già mi si arrampica sulla libreria nella parete di fronte a me. Con un balzo le metto una mano sotto il sedere, appena in tempo: si lascia andare tra le mie braccia. E ride come una matta. Mentre la appoggio per terra noto un libro avvolto da una cartina geografica molto consumata. Lo apro e cento trombe suonano tutte insieme.
CAVE DE ECO, A LEYENDA DE VERDAD.
Sfogliando le pagine mi sembra di volare: il libro riporta anche le cartine delle tratte sperimentate negli anni per raggiungere la grotta! Qualcuno in famiglia doveva essersi particolarmente interessato a una strada perché una pagina era strappata e segnata dalle pieghe: il misterioso lettore l’aveva fatta piccola piccola, adatta a un taschino. Ne sto studiando i dettagli quando sento il rumore degli zoccoli di Teresa avvicinarsi sempre di più. In preda al panico prendo una manciata di mappe e le infilo nel pigiama. Teresa compare sulla porta, sorride e mi allunga i vestiti.
Per prima cosa trasferisco di soppiatto le mappe nella tasca impermeabile dello zaino.

Ora che siamo in macchina controllo ogni minuto che non siano sparite.
Quando siamo partiti, l’unico a rimanere alla fattoria è stato Ramiro. Deve curare gli animali e non può lasciare il raccolto incustodito. Ramiro è segnato dal duro lavoro. Apparentemente è un tipo molto brusco e schivo, ma a me sembra uno che non si fa scappare niente a proposito di persone e situazioni. Di quelli che sanno tutto, ma non parlano mai.
Teresa mi chiede qualcosa, ma non capisco, allora ripete con i gesti. Ora è chiaro: vuole sapere cosa sto cercando. Perché sono qui solo? Ha un tono molto dolce, ma non so risponderle. Potrei far vedere a tutti le mappe, ma penserebbero che sono un ladro, un pazzo.
Apro lo zaino, sul mio quaderno faccio un disegno. Da una parte ci sono io in mezzo a un gruppo di altri bambini con una città intorno. Dall’altra ci sono io su un sentiero in un bosco stilizzato. Quando mostro il disegno a Teresa, traccio una freccia tra i due me stesso, da quello inserito nel gruppo al solitario, e faccio un cuore. Lei sorride.
La piccola Emilia sembra aver preso tutta la situazione come un gioco, quasi come una missione segreta da portare a termine. Gioca agitando davanti a sé il coniglio di pezza.
Julio, il marito di Teresa, rallenta. Siamo arrivati. Felù mi stringe una mano sulla spalla e con un cenno della testa mi incoraggia ad affrontare il duro compito. La cabina non è proprio lì, bisogna camminare qualche minuto. Prendo lo zaino, mi piace avere le mie cose con me quando devo affrontare sfide difficili. Nel tragitto penso, come sempre. Provo a studiarmi un discorso.

Sono rimasto a guardare la cornetta là in alto, fino a quando il senso del dovere è diventato più forte della paura.
Infilo una manciata di monete nella fessura e faccio il numero. Da un lato vorrei essermi già tolto questo peso per tornare da Felù, dall’altra vorrei non rispondessero mai. Poi lo scatto, ma non è la mamma a parlare, nemmeno papà. È la segreteria telefonica. Inizio a piangere, vorrei che quel suono durasse per sempre. Arriva il bip, ma non parlo. Che dovrei dire? Sono agitato, soffocato. Ho bisogno di capire. L’unica cosa che riesco a mormorare è “Sto bene” e poi appendo.

Tutto insieme fu troppo, Emilia, Felù, mamma, l’aeroporto, la grotta, la strada. Indietreggiai, uscendo dalla cabina, e corsi di nuovo più forte che potevo, ma non verso la macchina di Julio:
Dalla parte opposta.

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