Elfo Puccini maggio 2016: Il giardino dei ciliegi, o dei ‘segreti’

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Per mettere in scena un classico occorre attualizzarlo? L’Elfo Puccini chiude la propria stagione rispondendo con un categorico “no”.
Siamo stati abituati, anche eccessivamente, a un teatro che deve sempre e comunque essere contemporaneo: si pensi a quest’ultima stagione che oramai giunge al termine, con i cartelloni milanesi colmi delle attualizzazioni più disparate -e di frequente poco riuscite- di testi capitali della storia dello spettacolo occidentale. Ferdinando Bruni con la compagnia dell’Elfo fa la scelta opposta e decide di portare sul palcoscenico “Il giardino dei ciliegi”, uno spettacolo riproposto dopo la prima del 2006 che come un punto fermo chiude ogni possibile discussione: i classici, sembra dire l’allestimento di Bruni, sanno parlare benissimo anche da soli. Nella loro lingua, con la loro età, senza bisogno di truccarli e mascherarli con eccessive forzature.
La scelta di Bruni per il capolavoro di Anton Čechov è limpida, essenziale e, per questo, straordinariamente efficace. Quello stesso regista che ha abituato il pubblico a messinscene coraggiose -basti citare la ‘Tempesta’ shakespeariana della scorsa stagione o la ‘Salomé’ di Wilde riproposta quest’anno- ora lascia parlare il testo ottocentesco, senza gettarlo violentemente in mezzo alla strada della contemporaneità ma accompagnandolo passo dopo passo con la sua silenziosa presenza di uomo del XXI secolo. La regia di Bruni, che ha curato anche la traduzione italiana, si muove su due direzioni solo in apparenza antitetiche e molto vicine al teatro di Čechov: realismo e simbolismo. Tutto è reale sul palco e nessun oggetto è privo di rimando simbolico.
Accoglie l’azione una meravigliosa scenografia candida ma crepata, come le ossa sbiancate di una nobiltà ormai decaduta, certo uno dei punti di forza di questo allestimento: è la stanza dei bambini dell’infanzia di Ljuba e del fratello Leonid in cui tutto il dramma si svolge. Ogni cosa è verosimile, fino al più piccolo dettaglio: le luci, impeccabili come al solito, curate da Nando Frigerio, che suggeriscono i momenti della giornata o gli effetti di lampade accese nei corridoi vicini; la recitazione degli attori che ignora il pubblico e davvero recupera l’idea borghese del palco come una stanza-scatola a cui viene tolta una parete per permettere allo spettatore di sbirciare; e infine la cura precisa per costumi e oggettistica. Ma in ogni elemento il pubblico è chiamato a scoprire un rimando preciso a un senso più profondo. Tutto il dramma viene interpretato da Bruni come la perdita non solo della condizione di agiatezza nobiliare ma soprattutto dell’infanzia: Ljuba e il fratello sono due cinquantenni rimasti piccoli, ridono, scherzano, giocano e i problemi, come fanno i bambini, preferiscono ignorarli. Ljuba è una donna potente in casa, vera padrona, ma è un gioco di ruolo in un mondo che quella potenza ormai non riconosce più. Ed è l’umiliato, ignorato, schernito Lopachin, servo arricchito divenuto borghese, che al di fuori della finzione che regna in quella casa detiene il potere. La pièce di Čechov è profondamente simbolica, a partire da quel giardino dei ciliegi che diventa un giardino dei segreti: nasconde il dolore della morte di un bambino, cela un’infanzia a cui tutti i protagonisti si aggrappano come a un salvagente, è simbolo di quel mondo aristocratico che non vuole vedere in faccia la realtà della sua rovina. E Bruni gioca con i simboli: incessantemente e quasi ossessivamente un ticchettio ricorda al pubblico lo scorrere del tempo e l’impossibilità di restare bambini; le pose degli attori non sono mai casuali; l’armadio apparentemente in ultimo piano assume tutto un significato nell’economia della concezione aristocratica e così via.
Per la messinscena del “Giardino dei ciliegi” Bruni si avvale di buona parte della compagnia dell’Elfo. Vera e propria diva Ida Marinelli, perfetta nei panni della protagonista accanto a un altrettanto efficace Elio De Capitani; ma intorno a loro tanti gli attori, su tutti spicca Federico Vanni, che portano la recitazione a un livello alto e molto armonico. Frizzanti le parti di farsa, che la regia sottolinea con due interpreti molto adatti come Luca Toracca e Nicola Stravalaci; stona nell’insieme soltanto la voce strozzata della giovane Liliana Benini.
Uno spettacolo che vale la pena di vedere o rivedere, specialmente per riflettere su quanto i classici ancora possano dire proprio in quanto classici, in scena fino al 22 maggio.

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