Mir v doroge – Treni, ciabatte e tè caldo

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Quante volte mi sono sentita ripetere che è solo sui treni che si vede la vera Russia. Non nelle vie centrali di Mosca, in quell’ovattato quartiere delle ambasciate in cui ho vissuto, così benestante e protetto da essere sì confortevole e sicuro ma da rendere ben poco l’idea di ciò che poi si trova “là fuori”. No, la vera Russia è nelle cuccette dei platskart, i vagoni di terza classe dei treni a lunga (talvolta lunghissima, per gli standard italiani) percorrenza, dove esponenti delle più diverse forme di umanità si ritrovano chiusi per ore o giorni interi, creando o rompendo amicizie e amori, mangiando cetrioli o bevendo tè, leggendo e dormendo.

È inizio ottobre quando decido di approfittare di un weekend autunnale per andare a trovare alcuni amici che abitano a Petrozavodsk, capitale della Repubblica della Carelia – nell’estremo ovest della Federazione Russa, vicino al confine con la Finlandia. Il modo migliore per spostarsi da Mosca a Petrozavodsk pare essere proprio il treno, un notturno che impiega dalle 12 alle 14 ore (a seconda del numero delle fermate effettuate) per spostarsi dalla capitale alla ventosa cittadina sulle rive del lago Onega.

Il lago Onega fotografato dall’isola di Kizhi e da Petrozavodsk

Tutto sommato si tratta di un tipo di trasporto piuttosto economico: un biglietto di andata e ritorno di terza classe mi costa circa 3000 rubli (40 euro), tenendo conto del fatto che ci possono essere variazioni di prezzo a seconda della posizione del letto che si sceglie. I vagoni platskart hanno infatti circa 50 letti disposti su due livelli e chiaramente a costare di meno sono quelli posizionati al livello superiore, più scomodi da raggiungere: non esistono infatti le tipiche scalette dei letti a castello e per arrivare fino al proprio posto bisogna arrampicarsi sui letti altrui, issarsi ai sedili e aggrapparsi alle pareti. Il tutto, chiaramente, sempre su un treno in movimento.

Per quanto i biglietti ferroviari russi siano piuttosto economici per gli standard occidentali (eccezion fatta per i Sapsan, i treni ad alta velocità, in tutto e per tutto con standard di qualità e prezzi europei) avevo comunque deciso di aderire all’archetipo dello studente squattrinato e puntare al risparmio acquistando un biglietto per letto superiore all’andata e concedendomene uno inferiore solo al ritorno.
Mi ritrovo però a viaggiare al meglio in entrambi i casi, dato che il gentile signore che nella tratta Mosca-Petrozavodsk aveva il letto sotto al mio si offre di fare cambio e cedermelo perché “tak Vam udobnee” (“così per lei è più comodo”).

Così inizia il mio primo viaggio in plantskart, con un treno in partenza dalla stazione Moskva Oktyabr’skaya – anche nota come Leningradsky Vokzal, una delle numerose stazioni ferroviarie moscovite, di cui solo quelle principali sono almeno una decina – alle 21:00 e in arrivo a Petrozavodsk alle 8:55 del mattino successivo. Sì, perché i russi sono spesso disorganizzati e ritardatari, ma se c’è una cosa che sanno gestire alla perfezione e con puntualità sono i treni. Anche quelli che viaggiano per diversi giorni (11 fusi orari, dopotutto, non sono certo brevi da attraversare) e con temperature fino a -40°C arrivano quasi sempre spaccando il minuto previsto.

I russi, ben più abituati di noi europei a viaggi così lunghi, hanno ormai sviluppato un fitto galateo di regole non scritte e comportamenti da seguire in treno, indicati per godere del massimo del comfort e disturbare al minimo i propri vicini. Quando salgo mi sento un po’ spaesata, perché tutti sembrano sapere benissimo ciò che bisogna fare, mentre io mi muovo attorno al mio posto cercando di capire da che parte girarmi. Alla fine, seguo l’unica regola che serve in questi casi: fare come gli autoctoni.

Capisco in fretta che, essendo già sera ma non essendo ancora troppo tardi, posso scegliere se tenere il mio posto in versione diurna (cioè in formato sedile con tavolino) o se convertirlo già in un letto per la notte. Scelgo la prima opzione e mi metto quindi seduta a leggere, interrotta a un certo punto solo dal già nominato gentile signore con il posto – a questo punto – sopra di me. Attratto dalla copertina del mio libro, che riporta un titolo palesemente non in russo, mi chiede prima da dove vengo e poi “Začem?” (“a che fine?”) una ragazza italiana dovrebbe mai andare a Petrozavodsk da sola in un vagone notturno di terza classe. Il mio “Tam živut druz’ja” (“Ci vivono degli amici”) non sembra soddisfarlo del tutto come risposta, e quindi lui continua a interrogarsi a lungo sul motivo della mia presenza in un treno frequentato palesemente soltanto da russi.

Mi rendo però presto conto di aver commesso una grave dimenticanza: non ho con me un paio di pantofole. Perché chiaramente tutti i russi le hanno portate: non si possono certo trascorrere tutte queste ore di treno – tra dormite, chiacchierate e puntatine alla toilette – con indosso le scarpe (che scomodità!) ma non si può nemmeno andare in giro solo con le calze (che mancanza di igiene!). Passare ore – o addirittura giorni – su un treno, in fondo, richiede che i viaggiatori sappiano farlo nel modo più comodo possibile e adattando alle nuove condizioni “in movimento” quelle che altrimenti sarebbero una giornata o una nottata normali: prima di dormire ci si cambia, ci si mette il pigiama, si va nel bagno in fondo al vagone a lavarsi i denti e ci si beve un tè caldo, il tutto come se si fosse a casa propria. Semplicemente, lo si fa a stretto contatto con decine di altri viaggiatori e mentre si macinano chilometri. Ciò che tendenzialmente sorprende noi occidentali è il grado di familiarità che i russi hanno raggiunto anche nel viaggiare in simili condizioni: noi all’inizio ci sentiamo impacciati e rigidi; loro, per cui viaggi così lunghi sono la normalità, li affrontano con estrema naturalezza e facendo (quasi) tutto ciò che farebbero se fossero a casa propria e non su una rotaia in mezzo alla steppa. Le pantofole sono un esempio: a chi di noi verrebbe in mente di portarsi un paio di ciabatte in treno?

Oppure, a proposito di caldo: ancora oggi i treni russi hanno alla fine dei vagoni quelle che una volta erano un samovar e oggi sono cisterne di acqua bollente a disposizione dei passeggeri. Ci si può portare la propria tazza e il proprio infuso da casa o acquistali per poche decine di rubli dal responsabile del vagone; in tal caso, non si riceverà un anonimo bicchierino di plastica, ma il tè bollente verrà versato nelle tipiche tazze di vetro e metallo.
Anche tutto l’occorrente per dormire viene fornito dalle ferrovie: ogni passeggero (anche in terza classe) trova sul proprio sedile un pacchetto sigillato contenente un coprimaterasso, un lenzuolo, una federa e un asciugamano bianchi immacolati. A quel punto non resta altro che smontare il sedile, posizionare il materasso e sistemare il tutto, per ritrovarsi in un letto vero e proprio.

Un letto piuttosto comodo, oltretutto, perché per una persona come me – che in viaggio non riesce minimamente a chiudere occhio, nemmeno durante i voli intercontinentali notturni di 10 ore – riuscire a farmi una dormita di ben sette ore è una grande conquista.
Al mattino tutti si alzano e procedono con gli stessi gesti (ma in senso inverso) della sera prima: vanno alla toilette a lavarsi, si fanno un tè con dei biscotti, si tolgono gli abiti usati per dormire e indossano quelli pesanti per l’esterno.
La solita routine mattutina, insomma; solo, mentre si attraversano boschi di betulle a migliaia di chilometri da casa.

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