Sotto pressione

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La sentiva.
Oh sì, se la sentiva, così subdola e maligna annidata nell’oscurità della sua stanza.
Riusciva a percepirne anche il respiro ansimante.
Aveva ansia e paura addosso, come un novellino il primo giorno di scuola. Solo che quel periodo era passato da anni, troppi a pensarci.
La paura per la sveglia, invece no.
“Merda, la sento!” pensò Andrea, madido di sudore nel suo letto.
Mancava poco.
Man mano che si avvicinava la maledetta ora X, il tempo si dilatava in maniera infame ritardando il fatidico momento.
Quella puttana però non si decideva e tutto stava diventando un supplizio troppo pesante da sopportare. Si decise ad alzarsi e controllare l’ora.
Le 5 e mezza. Aveva ancora a disposizione due ore e mezza di sonno. Sbalordito, accasciò pesantemente la testa sul cuscino, proprio di fianco a quella di Chiara, che dormiva pacificamente rivolta verso la porta che dava sul corridoio; come se fosse pronta ad uscire di fretta dal letto caldo per affrontare di petto le giornate.
Andrea no.
Lui dormiva il più distante possibile dalla porta e rivolto verso il comodino sul quale si abbarbicava, prepotentemente, quella puttana della sveglia, pronto a scaraventarle addosso la sua frustrazione.
Tuttavia, il tempo infame era stato benevolo con lui, concedendogli ancora due ore e mezza di sonno. Doveva sfruttarle.
Si decise a rilassarsi completamente, abbandonandosi al tocco di Morfeo; quindi chiuse gli occhi, respirò profondamente e..
Nulla.
Cazzo, non riusciva proprio a rilassarsi. Avevano dannatamente ragione Chiara e quelle troiette delle sue amiche che, porca mis..DRIIIIIIIIIIINNNN DRRRRIIIIIIIIIIN
“Vaffanculo sveglia del cazzo!!! Vaffanculo!!! Vaffanculo te e chi ti ha creato maledetto oggetto del demonio!!!” si mise ad urlare, in piedi sul letto svegliando, di conseguenza, anche Chiara che, con gli occhi ancora semichiusi e la voce impastata non mancò di ricordargli quanto duro fosse il suo lavoro di ufficio e quanto stress accumulasse e bla bla bla.
“Vaffanculo anche a te!” pensò acidamente Andrea, e si diresse di gran carriera verso la cucina per cercare del caffè e dare, quantomeno, un senso a quella giornata di merda.
Aprì la credenza dove stavano, normalmente, le cialde e niente.
Rimase a fissare il ripiano per qualche minuto, fino a che non arrivò Chiara già pronta per andare al lavoro.
“Ah amore, mi sono dimenticata di dirti, ieri sera, che da oggi non si berrà mai più caffè in questa casa. Sai, ti vedevo troppo nervoso ultimamente.” cinguettò Chiara allegramente, con un sorriso trentadue denti.
“Ma che cazz..?!”
“Mai più caffè, amore. E’ facile.” ribattè con infinita calma, mentre beveva il suo succo ACE.
“Hai almeno idea di che cazzo stai dicendo, Chiara?! Eh?. Lo sai che entro oggi devo consegnare quel cazzo di racconto di merda a Franco, se no non mi pubblica sul giornale! Come cazzo pensi che faccia io senza il mio caffè?! Eh?! Rispondimi, per dio!”
Era furioso, si agitava per tutta la cucina e la fronte era già imperlata di sudore.
“Ci ho pensato bene, amore mio. E visto che non riesco a farti smettere di fumare, almeno limito i danni. E Danila è d’accordo. Ah, viene qui a cena, mi stavo dimenticando di dirtelo”
Disse tutto ciò con una calma olimpica e uscì mimando un bacio al fidanzato.
Era totalmente fottuto.
Niente caffè e un racconto del cazzo che doveva consegnare tre settimane prima, e che si ritrovava ora da scrivere per il giorno successivo.
“Quella puttana…” bofonchiò, lasciandosi cadere su una sedia della cucina mentre si accendeva la prima di una lunga serie di Chesterfield Blue.
“Vi prego: salvatemi voi!”.

Non poteva cazzeggiare ora.
C’era solo una persona che poteva aiutarlo ad uscire dal sottobosco anonimo degli pseudo-scrittori facendogli fare il grande salto: Franco Calabrese.
Quell’uomo era nel giro da tempo, aveva fiuto per gli affari e per i talenti, aveva le conoscenze; c’era solo un piccolo, ma non indifferente problema.
Era un grandissimo figlio di puttana e aveva il vizio di umiliare gli scrittori che si presentavano al suo giornale per chiedere di pubblicare i propri racconti, in una rubrica.
Alcuni emergevano, altri affondavano.
Andrea era affondato da un pezzo, ma nella merda liquida.
Aveva pubblicato una serie di racconti che avevano riscosso un successo modesto e l’ultimo della serie, che avrebbe sancito il suo futuro, era stato rimandato per tre settimane a causa della stronzaggine intrinseca di Franco, che si divertiva a vedere impazzire quei giovani sprovveduti.
Andrea sapeva che in quel giorno si giocava tutto: reputazione, casa e fidanzata.

Si schioccò le nocche e fece ruotare la testa, e fissò la pagina bianca che appariva sul suo portatile.
La fissò di nuovo.
Poi ancora.
E ancora una volta.
“Cristo” bofonchiò, sbuffando un po’ di fumo.
Decise che, forse, guardare la fauna urbana che si annidava nel cortile sotto casa sua era un buon modo per ricercare ispirazione.
Andò in balcone e per le seguenti tre ore non fece altro che bere succo ACE e fumare una sigaretta dietro l’altra, mentre il mondo di fuori si portava avanti e affrontava di petto le situazioni che si proponevano.
Come faceva Chiara.
“Pff. Chiara è solo una sprovveduta, infantile, che si circonda di rincoglionite per sembrare colta.” si disse mentalmente alzandosi per andare al telefono che squillava incessantemente da una ventina di secondi mettendo a dura prova i suoi nervi.
“Pronto?” disse con voce incazzata.
“Buongiorno, qui è Luca di Telecom Italia, le vorremmo parlare di una nuov..”
“Vaffanculo!” e riattaccò.
Si diresse verso il computer, sistemato in maniera tattica in cucina e si rimise a fissare la pagina bianca.
“Andrea, cazzo. Pensa, pensa, pensa.. Sai scrivere e lo sai bene!” si disse a voce alta per rendere il tutto più enfatico.
Si ricordò di quello che le diceva la sua professoressa di scrittura creativa all’università: “Ricorda che molto delle nostre storie deriva da ciò che viviamo in prima persona”.
Continuò a ripetersi quelle parole, come un mantra, nella sua testa per le due ore successive, nelle quali ingollò svariate lattine di birra scadente.
Era ubriaco marcio e incazzato come una iena con quel bastardo di Franco, che sicuramente si stava divertendo alla faccia sua assieme a qualche puttana dalle tette grosse pronta soddisfare ogni suo singolo piacere. Mentre lui era lì a sorbirsi le paturnie giornaliere di quella microcefala di Chiara, pronta solo a lamentarsi e a sfondargli i timpani e le sinapsi con i suoi pianti isterici su quanto sia difficile il lavoro di ufficio e quanto stress le comporta bla bla bla. ‘Fanculo alla troietta.
“‘Fanculo alla troietta!” biascicò Andrea sputacchiando saliva e birra sul divano liso.
Il tempo stava scadendo e lui si trovava lì, arenato come una balena sul suo divano scadente, con mozziconi di sigaretta e lattine di birre a dare un tono all’ambiente.
Se lo vedessero i suoi.
Se lo vedesse Chiara.
Se lo vedesse Franco.

Squillò il telefono e Andrea si trovava in uno stato decisamente poco incline a rispondere.
Erano le sei meno un quarto e lui era spiaggiato su quel divano lezzo da almeno quattro ore, con il solo risultato di essersi ubriacato come non faceva da dieci anni e aver totalmente lasciato da parte il suo lavoro.
Il telefono continuò a squillare.
Si alzò con fare mastodontico e si diresse barcollante alla cornetta.
“Pronto?” mugugnò, mentre si stropicciava gli occhi.
“Buongiorno bella principessa, ben svegliata! Come si sente?”
Riconobbe immediamente la vocetta acuta e insopportabilmente penetrante di quel figlio di puttana di Franco. La rabbia iniziò a pervadergli le membra e le nocche della mano sinistra iniziarono a sbiancarsi.
“Ah, ciao Franco. Si va avanti” rispose, cercando di mantenere un tono neutro.
“Beh, come dire, piccolo stronzetto. Sono quasi le sei e io non ho ancora quel cazzo di racconto che tu mi dovevi circa due cazzo di settimane fa”
“Franco, credo fossero tre le settimane..”
“Non me ne frega un cazzo di quante settimane erano, brutto figlio di puttana fancazzista! Voglio quel cazzo di racconto ora, cazzo!” urlò, tanto che Andrea dovette allontanare la cornetta per evitare danni permanenti al suo orecchio destro.
“Ascoltami, bene” rincarò, “voglio quel cazzo di racconto, ora. Hai capito bene?”
“Franco, posso…” tentennò.
“Ora, ho detto.”
“Franco, senti posso inviartelo domani”.
“Non mi serve a un beneamato cazzo quel racconto, domani. Lo capisci o no?! Insulsa testa di cazzo, eh! Ti ho aiutato e tu me lo hai messo in culo non una, non due, ma ben tre volte! Credo che tu ti sia giocato qualsiasi cosa ancora possedevi. Hai chiuso.”
“Franco, aspetta! Aspetta, cazzo. Ho il mutuo, le rate da pagare della macchina! Francoooo!”
“Hai chiuso, stronzetto.” e riattaccò.
“Francooooooo!” urlò disperatamente Andrea accasciandosi vicino al telefono e lasciandosi andare un pianto isterico.
Rimase così per svariati minuti, poi scattò qualcosa nel suo cervello.
Si alzò, si diresse in cucina e prese a pugni il maledetto computer fino a ridurlo ad ammasso di rottami. Poi, con le mani arrossate e le nocche sanguinanti prese la carcassa del suo portatile e la scaraventò dal balcone imprecando come non aveva mai fatto e insultando qualsiasi essere vivente incontrasse il suo sguardo satanico.
“Vaffanculo Franco Calabrese! Vaffanculo! Vaffanculo tu, il tuo giornale di merda, la tua villa del cazzo, mi fai schifo!”
Dopo aver gettato il computer dal balcone continuò a sfasciare tutto ciò che si frapponeva fra lui e il suo cammino senza meta, urlando ai quattro venti la sua rabbia e il suo sdegno.
Prese un coltello e fece a pezzi il divano, poi pugnalò la televisione e infine recise i cavi del telefono e del modem.
Poi, ansimante, si trovò faccia a faccia con lei.
La puttana.
“Ora è il tuo turno, puttana” disse a denti stretti, con un ghigno malefico, alla causa di tutta la sua miseria: la sveglia.
Si avvicinò piano piano. La osservò attentamente, come a studiarne le mosse e la accarezzò con la lama del coltellaccio che brandiva a mo di spada.
“Tu non hai mai pensato ai miei di bisogni. Hai sempre e solo voluto suonare nel momento sbagliato. Beh, sai che ti dico? Ora sei tu nel momento sbagliato” le sussurrò.
Epiletticamente iniziò a colpirla ripetutamente. Prima a pugalate, poi a calci e pugni urlando come un maiale sgozzato, fino a restare senza un briciolo di voce.
“Muori puttana! Ora non parlerai più, immonda bestia del demonio ahahha!”
Con passo pesante si diresse in cucina e fissò con occhi spiritati il muro bianco che campeggiava davanti a lui.
Guardò con insistenza i suoi polsi e il coltello che teneva nella destra e inspirò ripetutamente.
Dentro. Fuori. Dentro. Fuori.
Dentro.
Fuori.
Cercò di rallentare il battito cardiaco e poi un colpo secco per recidere le vene del polso sinistro.
“Ahhhhhhhhhhhhhhhhh cazzo! Cazzo! Cazzo!” urlò accasciandosi sul pavimento, madido di sudore.
Si rialzò faticosamente e sbuffando ripetutamente si fece un altro taglio all’altezza dell’incavo del gomito e lasciò cadere a terra il coltello insanguinato, intinse le dita della destra nel sangue e scrisse a caratteri cubitali sul muro: VAFFANCULO FRANCO CALABRESE!
Ammirò soddisfatto la sua opera d’arte e rise di gusto, come non faceva da anni.
Precisamente quattro anni.
Gli anni che aveva passato con Chiara.
Quella troietta.
“Ora è il suo turno” disse .
Riprese il coltello e agguantò una sedia e si posizionò a tre metri dalla porta d’ingresso, seduto e insanguinato.
Aspettò che tornasse.
Aspettò e covò dentro di sè il rancore per essere stato un coglione e un buono a nulla per troppo tempo.
Aspettò e si rigirò il coltello tra le mani insanguinate.
Aspettò che la chiave entrasse nella toppa e girò con rumore metallico per quattro volte sbloccando la serratura.
Aspettò che si mostrasse una figura sull’uscio.
“E’ finito il tempo delle mele, puttana!”

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