La sigaretta nella mano, l’occhiolino, l’espressione irriverente di chi sa di avere il controllo della situazione. La giovane che ammicca al lettore dalla copertina dell’ultimo libro di Helena Janeczek, La ragazza con la Leica (Guanda, 2017), fresco di Premio Bagutta e di Premio Strega, è Gerta Pohorylle, in arte Gerda Taro. Cresciuta a Lipsia e trasferitasi presto a Parigi, modella, segretaria e dattilografa, era infine diventata la prima fotoreporter di guerra e anche la prima a cadere sul campo, nemmeno ventisettenne, durante la guerra civile spagnola.
La storia, com’è facile intuire, presenta tutte le componenti adatte a proiettarla nell’orizzonte della leggenda: il fascino, il carattere ribelle e provocatorio, la vita avventurosa e, non da ultimo, la morte precoce. Tuttavia la missione di Gerda non era quella di cambiare la realtà, bensì di raccontarla senza lasciarsi da essa inghiottire, di affrontarla di petto e possibilmente divertendosi: non era, insomma, un’eroina, se non una squisitamente picaresca. E si capisce allora la scelta dell’autrice di non costringerla in un tipico romanzo biografico imponente e celebrativo, e invece di presentarla attraverso ricordi slegati, avulsi da qualsivoglia ordine logico e cronologico: fotografie prelevate dall’album della sua vita, come quelle che compaiono nel prologo e nell’epilogo del libro, un omaggio a quello che era stato il modo di comunicare prediletto dalla protagonista. In questo romanzo corale, i tre narratori a cui è affidato il compito di inquadrarla sono le tre persone che meglio l’hanno conosciuta, non senza rimanerne scottate: l’amico Willy Chardack, detto il Bassotto, che l’amava non corrisposto, Georg Kuritzkes, tra i pochi ad averla conquistata, e Ruth Cerf, l’amica di Lipsia e compagna di avventure parigine, che da coinquilina condivideva la difficile quotidianità dopo la fuga dalla Germania . È un’ipotetica telefonata tra i primi due a scatenare il vortice dei ricordi, dando il via a un intreccio di realtà e finzione tutt’altro che artificioso: «discendenti dallo stesso verbo, “rinvenire” e “inventare” rammentano che per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma d’immaginazione». E la figura della giovane fotografa diventa allora anche un’opportunità, per i tre amici come per i lettori, di tornare a fare i conti con l’Europa degli anni ’30: un passato doloroso e spensierato allo stesso tempo, in cui si odiava il fascismo tanto quanto si desiderava di fare l’amore, senza perciò peccare di superficialità. Quando «tutto sembrava ancora possibile», almeno per Gerda, maestra nell’arte di cavarsela, tanto imprevedibile che almeno «saperla morta e sepolta a Parigi consentiva di non chiedersi dove fosse e cosa potesse ancora capitarle…».
Per la sua emancipazione, il suo avanguardismo, la sua ostinazione e per la sua facoltà di rimanere impressa in chiunque vi avesse a che fare, non può essere relegata al semplice ruolo di compagna di vita di Robert Capa. Dopotutto, senza di lei Robert Capa non sarebbe nemmeno esistito. Conosciutisi poco più che ventenni, avevano tratto vantaggio l’uno dalle competenze dell’altra e viceversa: Gerda, facendo uso della sua spregiudicata fantasia, aveva inventato per l’allora sconosciuto Andre Friedmann un passato americano di successo e per sé il ruolo di sua manager; il giovane le aveva invece insegnato il mestiere attraverso la sua Leica. Dissidente ungherese lui, ebrea polacco-tedesca lei, la funesta realtà delle persecuzioni − ma anche una certo gusto istrionico − li aveva dunque costretti a lavorare sotto pseudonimo, protagonisti di una favola che paradossalmente non era altro che un mezzo per immergersi nelle brutture della realtà: si sarebbero dedicati da allora in poi alla fotografia di guerra, diventandone pericolosamente dipendenti e trovando entrambi sul campo il proprio l’epilogo. Si tratta della dolorosa conclusione di un’esperienza ricca di contraddizioni, in cui la meticolosa e razionale messa a fuoco nasconde in realtà una grande eccitazione interiore, in cui l’abilità di trovarsi al momento giusto nel posto giusto e la precisione dello scatto presuppongono necessariamente una certa dose di incoscienza e in cui l’amore per la vita e il desiderio di libertà si trovano troppo spesso a fare i conti con i loro opposti, la morte e l’impotenza.
Gerda la Janeczek l’aveva conosciuta nel 2009 grazie a una mostra milanese curata da Irme Schaber, sua biografa tedesca che avrebbe poi avuto un ruolo non indifferente nella gestazione del romanzo. Nata come la sua protagonista in una famiglia ebrea polacca emigrata in Germania, l’autrice aveva presto intuito la forza incontenibile della sua figura, troppo a lungo rimasta nell’ombra. L’accurata documentazione bibliografica e archivistica che ha preceduto la scrittura del romanzo è tipica della Janeczek, che con la storia e la memoria aveva già avuto a che fare nei suoi lavori precedenti, Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010) e Lezioni di tenebra (Guanda, 20112). Si è trattato infatti di un lavoro indispensabile, innanzitutto per ricostruire le biografie dei suoi tre narratori, ancor prima che per fare ordine nella vita della travolgente Gerda. Un’irrefrenabilità tipica delle grandi passioni e dei grandi ideali: la fotografia, la libertà, la vita. Ma che si accompagna in lei anche a un’innata leggerezza, che la scrittura agile dell’autrice suggerisce perfettamente. Leggerezza che, per dirla con Calvino, «non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».
Chi stasera, lunedì 30 luglio, si trovasse a Champoluc (Ayas, Valle d’Aosta), avrà la possibilità di sentir parlare della “ragazza con la Leica” direttamente da Helena Janeczek. L’appuntamento, fissato per le 21.15 al Monterosaterme, si situa nell’ambito della rassegna Ayas Littéraire, organizzata dall’associazione Monterosa racconta, che ha il pregio di portare ai piedi del Monte Rosa i nomi più interessanti del panorama editoriale italiano. Un incontro da non perdere per gli amanti dei libri, della fotografia e della libertà.