Kyoto: frammenti di sogno giapponese

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Kyoto è stata l’inizio e la fine. La città che mi ha accolto e la mia ultima visione.
L’ho vista all’alba, silenziosa e surreale, l’ho attraversata al tramonto, invasa dai turisti, e l’ho vissuta di notte, addormentata.
Simbolo della tradizione e della cultura nipponica, è stata la capitale del paese per quasi mille anni, divenendo centro creativo delle arti e della letteratura, tappa obbligata per il diffondersi del Buddhismo e gabbia d’oro dell’imperatore durante il dominio dei Tokugawa, l’ultimo governo feudale.

Arrivo a fine marzo, periodo scelto in occasione della fioritura dei ciliegi, una delle poche notizie precise raccolte prima del viaggio. Mi rendo presto conto che essermi privata di immagini, lasciando l’itinerario al caso, è stata una saggia decisione: una manciata di minuti a piedi e sono già precipitata in un vortice di meraviglia, l’unica costante dei miei sei mesi.
Raggiungo l’ostello e, nonostante sia notte fonda, non prendo neanche in considerazione l’idea di andare a dormire. Scostate le tradizionali tende noren (暖簾のれ) dell’uscita, si palesa davanti ai miei occhi – e al mio stomaco affamato – lui, il convenience store, uno di quei supermercati aperti h24. In breve: la salvezza. Un onigiri (お握り) al salmone è il mio primo pasto giapponese e, da buona straniera,ne rimango estasiata. Ma non c’è tempo per esplorare gli scaffali pieni di snack fantasiosi e patatine dal gusto non identificabile, la mia curiosità mi spinge ad andare avanti e riprendo a camminare senza indicazioni, meta e mappe.
Inconsapevole, arrivo nel cuore di Kyoto: Gion, il quartiere delle geisha. È lì che, timidi e delicati, tesi sull’acqua, illuminati da luci a led, vedo i Sakura, i miei primi sakura.
La parola sakura (さくら, 桜) diffuso nome femminile, significa “fiore di ciliegio”, ma di un tipo speciale di ciliegio: quello giapponese, un albero che non dà frutti ed esiste perciò soltanto per sbocciare, esaurendo la sua funzione in dieci giorni di bellezza.
Quello della fioritura dei ciliegi è il festival non ufficiale più importante del paese e non è solo un susseguirsi di belle giornate, ma una viva e sentita tradizione. Il rosa e il bianco dipingono i parchi, le vie delle grandi città, le periferie e i templi più remoti, nascosti tra le colline. I Giapponesi usano vestirsi a festa indossando lo yukata  (浴衣) il kimono di cotone leggero, dai colori sgargianti, e nelle botteghe ogni singolo dettaglio – gelati, stoffe, ventagli, tè, mochi,… – è a tema sakura.

Ho appreso sin da subito un aspetto fondamentale della cultura giapponese: il sentirsi e l’essere in armonia con la natura. Una natura che si vive a pieno durante queste settimane primaverili, distesi nei parchi a contemplare i fiori, con la pratica dell’hanami (花見), letteralmente “contemplazione dei fiori di ciliegio”, quando grandi gruppi di persone passano interi pomeriggi a leggere, chiacchierare e cantare condividendo le proprie bentō (お弁当), le nostre “schiscette”, all’ombra dei tetti di petali. È il momento dell’anno dedicato allo “stare insieme”, un’usanza alle radici della mentalità giapponese.
Si racconta che i primi ciliegi nacquero sul monte Yoshino, a sud di Nara, intorno al VII secolo, quando il Giappone era popolato da comunità tribali e il primo grande clan, gli Yamato, stava abbozzando l’organizzazione statale. La sacra montagna divenne presto il luogo ideale per la contemplazione dei sakura – si incontrano spesso tra versi di haiku e poesie waka le sue pendici rosa, splendido ritratto di primavera –, tanto che persino Toyotomi Hideyoshi, l’unificatore del Giappone, vi fece visita.
Ma la bellezza che i sakura schiudono non è solo ornamento, puro piacere per gli occhi, va oltre e racconta gli aspetti più intimi della cultura giapponese. Non a caso ritornano frequentemente nella poesia, nella letteratura e nell’arte, e figurano anche tra le ultime parole scritte dai giovanissimi kamikaze attivi durante la seconda guerra mondiale: «Se solo potessimo cadere, come fiori di ciliegio in primavera, così puri e luminosi…». L’imperfezione è la chiave: fragili e leggeri, saranno spazzati via dal vento appena raggiunto il massimo splendore. L’eternità non è compatibile con la bellezza.
Nella consapevolezza della sorte della natura così come dell’uomo, che altro è se non parte del mondo, si nasconde il sublime. Così, i sakura sono considerati espressione materiale dell’indefinibile mono no aware (物の哀れ), concetto intraducibile, reso come “il pathos delle cose”. Pilastro dell’estetica giapponese, descrive uno stato emotivo e fisico, interiore ed esteriore, ricco di sfaccettature: si tratta di una contemplazione della natura emotivamente compartecipata, che si traduce in una meditazione sulla sua caducità della vita umana cui consegue, inevitabile, la nostalgia per l’inarrestabile mutamento delle cose. La morte come completamento della vita, la caduta che dà senso alla fioritura, la magia di una bellezza che sboccia per svanire, come un samurai che si batte consapevole che dovrà morire.

世の中は

地獄の上の

花 かな

Non scordare:
noi camminiamo sopra l’inferno,
guardando i fiori.
Kobayashi Issa

Visitare Kyoto in quei giorni è stato un misto di stupore e fatica: il Murayama Koen, l’antico parco al cui centro si erge solenne un gigante shidarezakura, しだれ桜, (albero di ciliegio piangente), e il “sentiero dei filosofi”, itinerario contemplativo prediletto da Nishida Kitaro, sono immersi nei petali di sakura, ma inondati dalla folla. La vera emozione è imbattersi nel rosa dei luoghi nascosti, delle stradine meno battute dai turisti, ma ben note ai giapponesi, e godere della caduca bellezza senza la distrazione psicologica data dalla necessità di immortalare il momento. Non so come né precisamente dove ma è successo. Arrivata tardi al Kinkaku-ji, meglio conosciuto come Padiglione d’Oro, mi sono scontrata con la severità delle massicce porte del tempio, chiuse alle 5 del pomeriggio. Non sapendo come tornare, ho iniziato a vagare, senza una meta precisa, sempre troppo fiduciosa nelle mie capacità di orientamento. Dopo esser entrata in un polveroso negozio di antiquariato europeo e dopo aver tentato di tradurre le carte giapponesi di Yu-gi-oh in un manga-shop, tra il grigiore dei palazzi della periferia è spuntato l’arancione di un torii (鳥居), inequivocabile segno di un santuario shintoista e dell’ingresso di un parco, o meglio, di un “luogo di natura”. Con la solita fortuna che aiuta gli audaci, sono capitata in una piazzetta circondata dalla vegetazione, colma di bancarelle, stand di street food e giapponesi autoctoni. Di turisti, neanche l’ombra. Tra occhiate di sorpresa, mi sono seduta in mezzo a bambini sorridenti, liberi di correre tra i fiori, e anch’io ho “fatto hanami”, o perlomeno ci ho provato. Uno dei primi momenti di silenzio mentale e di incredula commozione. Lì, mentre il sole calava, lì, sola, ma circondata dalla festa primaverile, ho sentito che quella era la realtà. La stavo vivendo, toccando, ascoltando, annusando. Non era una cartolina, una fantasia: ero, io sotto il rosa sbocciato, tra le lucine di carta, con in bocca un Takoyaki (たこ焼き), una polpettina di polpo in pastella bollente.

Tuttavia, l’aria di sogno non mi ha lasciato, anzi.
Il giorno seguente, girando per il parco di Arashiyama, le ho incontrate: fantasmi di una remota fantasia, eccole, due maiko (舞子), apprendiste geisha, camminare lente, accompagnate dalla loro okaa-san (お母さん, “madre”), una ex-geisha che le guida. Proprio la fioritura dei sakura è una delle poche occasioni in cui una geisha può evadere dal quartiere di Gion e passare il pomeriggio nei parchi, sfoggiando gli splendidi kimono primaverili.
Lasciamo da parte ogni fuorviante pregiudizio di matrice occidentale: essere geisha è una scelta impegnativa. È devozione assoluta per l’estetica da esprimersi costantemente, durante tutta la propria vita, attraverso la bellezza del volto, la ricchezza dei kimono, la finezza della conversazione e la bravura nelle arti.
I due kanji che ne compongono la parola, 芸者, significano rispettivamente “arte” e “persona” e, per l’appunto, le geisha sono opere d’arte in carne e ossa e donne d’arte, vivi frammenti di tradizione. Sinceramente ero convinta non esistessero più, un po’ disillusa pensavo ne fossero rimaste soltanto tristi rivisitazioni per turisti, ma mi sbagliavo. Drasticamente diminuite nel numero, le attuali geisha, per divenire tali, sostengono un arduo e costosissimo tirocinio, immutato nei secoli, con severa rinuncia alla tecnologia e legate indissolubilmente alla propria comunità. Una volta geisha, lo si resta per sempre.

Gion, il cuore antico di Kyoto, ben conservato, ospita le loro dimore e ne custodisce il mistero. Girare per le sue strade, tra le basse abitazioni in legno con le porte scorrevoli in carta di riso, i tempietti shintoisti nascosti fra i giardini e le riservate case da tè, è come viaggiare nel tempo. A completare la magia ci sono loro. È raro incontrarle nella loro quotidianità, ma la fortuna anche questa volta mi ha assistito: anticipate dallo scalpiccio degli altissimi zoccoli, all’imbrunire, le ho intraviste, come fantasmi, percorrere Ponto-chō e sparire dietro gli shōji (障子), i pannelli velati.
Seduta sul tatami (), quasi inebetita, le ho poi ammirate danzare, a pochi centimetri da me, al Gion Corner, il teatro del quartiere. Sospese sulle note acute di una musica lontana, incomprensibile, mi hanno stregato. Gesti lenti, euritmici e precisi, densi di significati che non mi saranno mai svelati. Inerme, ne ho fatto pura esperienza, senza domande, senza conferme né smentite. Una decina di minuti, la durata di un sogno: mi chiedo ancora se sia successo davvero. E sull’onda di questa incertezza ho deciso di impegnarmi nella ricerca di un Odori (踊り), uno spettacolo più lungo, impresa ostica per chi non parla giapponese.
Sono infine riuscita ad assistere al Kamogawa Odori, una rara occasione dove le geisha si esibiscono accanto alle maiko. Dedicato al Kamo, il fiume che attraversa la città, lo spettacolo si tiene al teatro Ponto-chō Kaburenjō dal 1872: in un’ora e un quarto, su un palco a ferro di cavallo, ho assistito a danze, canti e performance teatrali in stile kabuki, in un tripudio di colore. Gesti ipnotici, puliti, leggeri, muovono i variopinti ventagli mentre i visi, fissi nell’espressione vacua delle maschere di trucco bianco, trascinano gli spettatori in un’atmosfera di malinconico incanto. I costumi delle teatranti – solo geisha – sono grandiosi, curati in ogni dettaglio: in scena c’è uno stralcio di Sogno di una notte di mezza estate e un Puck candido, più simile a una volpe che a un elfo, saltella in una scenografia essenziale, consumando il dramma. È un grottesco studiato, impostato, dove le voci dei personaggi, dietro le impressionanti e pesanti maschere, mischiano parole a versi ferini. Tento spasmodicamente di imprimere nella mente i fotogrammi di un’esperienza artistica e culturale irripetibile.

Concluso lo spettacolo, stordita, attraverso Ponto-chō, costeggiando il Kamogawa. Alla luce del sole, è una comunissima strada: fasci di cavi ad alta tensione pendono dai tetti e le porte in legno scuro sono serrate, solo il rosso delle lanterne spente e le immagini dei menù esposti ricordano la vivacità della sera.
Al tramonto che la via si anima, accendendosi di colori e popolandosi di clienti: un’interminabile sequenza di ristoranti, ognuno specializzato in un piatto – udon, (饂飩), yakitori, (焼き鳥), carne wagyu, (和牛) … Il cibo è arte complessa, necessita tempo e cura, e ogni tipo di pietanza richiede tecniche diverse, così la specializzazione diventa sinonimo di qualità. Proprio lì, a Ponto-chō, riesco a scovare un ristorante di sushi che rasenta la perfezione.
Sushitetsu, alla fine della strada, è segnalato dalla consueta coda di clienti. Ma il Giappone mi ha insegnato ad aspettare senza spazientirmi e così ho fatto, tutte e tre le volte. Come si suol dire, la cena è valsa l’attesa. Si mangia seduti al banco, davanti ai cuochi, o seduti sul tatami attorno a un tavolo squadrato: ho preferito la prima opzione ed è stato l’ennesimo shock. Fascetta colorata attorcigliata al capo, i cuochi comunicano tra loro urlando, ridono e canzonano gli avventori, senza mai smettere di muovere le mani, impegnate a scegliere il taglio di pesce freschissimo, ad affettarlo e a modellare le piccole porzioni di riso. Mando l’ordine, nel mio giapponese zoppicante, direttamente al cuoco, che, dopo istanti di spaesamento, afferra un grasso e lucente pezzo di salmone. Un pugno di secondi e sul mio piatto – una foglia di bambù, in realtà – piombano due nigiri (握り). L’impatto con il primo boccone prende la forma di una domanda: “ma che tipo di sushi ho mangiato fino adesso?”. La fetta di pesce è più spessa, si scioglie in bocca, e il riso non ne copre il sapore intenso, ma l’accompagna con delicatezza. Non mangerò mai più sushi fuori dai confini giapponesi.

Se si parla di Kyoto, non si può non citare il Gion Matsuri, la festa più importante del Paese. Per una ventina di giorni all’anno, Kyoto si riempie di musicisti, spettacoli, processioni e bancarelle, che costeggiano la Shijō Dori, l’arteria principale della città. Il festival è un continuo crescendo di eventi con un picco al 17 luglio, il giorno della grandiosa sfilata dei 32 carri, trainati a mano, in onore del dio shintoista Susanoo-no-Mikoto. I carri sono enormi, riccamente decorati e trasportano individui mascherati e oggetti religiosi dedicati delle varie divinità shintoiste. La processione, diretta alla Yasaka Hall, il tempio dedicato a Susanoo, dura tutta la mattinata e raccoglie migliaia di spettatori provenienti da tutto il Giappone: è un momento fondamentale per l’intera comunità nipponica. L’obiettivo delle celebrazioni è di scacciare gli spiriti maligni attraverso la musica, la danza, i colori sgargianti dei costumi e, non da ultimo, la devozione, che spinge persone di 80 anni a rimanere sotto il sole fino al raggiungimento della meta da parte dell’ultimo carro.

Tra i santuari shintoisti, il più spettacolare è senza dubbio il Fushimi Inari Taisha, dedicato ad Inari, dio del riso e protettore degli affari. Inari è anche il nome del monte su cui si snoda il lunghissimo percorso del tempio – tre ore per raggiungere la vetta –, scandito da migliaia di torii vermiglio e reso famosissimo dalla corsa della piccola Chiyo, protagonista di Memorie di una Geisha. La galleria è, oltretutto, in perpetua costruzione, perché chiunque può decidere di comprare un torii per ottenere la benevolenza di Inari, allungando e arricchendo il cammino. I kanji neri che figurano sul lato di ogni torii non comunicano arcane preghiere: sono soltanto i nomi dei proprietari.
Un’altra costante del complesso religioso è la presenza ossessiva della volpe, kitsune,(): yōkai (妖怪), entità spirituali, le volpi sono messaggere del dio Inari e protettrici del tempio. Si tratta di creature benevole, intelligenti e dotate della capacità di tramutarsi in esseri umani, ma – come la volpe a nove code del manga Naruto insegna – anche di demoni vendicatori, che seducono le proprie vittime con visioni ingannevoli e si impadroniscono del loro spirito. L’ambivalenza e la complementarietà sono elementi caratterizzanti della cultura giapponese.
Sotto lo sguardo ambiguo delle volpi, in una notte d’estate, ho corso anch’io tra i Torii illuminati da deboli lanterne, lasciando scorrere la mia mano sul legno dei portali per il dio Inari.

Un’altra immagine iconica di Kyoto è certamente la foresta di bambù di Arashiyama: un’esplosione di verde. L’ho raggiunta all’alba, dopo aver attraversato la città dormiente infestata dai corvi, ero l’unica passeggera della monorotaia.
L’atmosfera tra le canne di bambù è surreale, di nuovo. Il sole appena sorto filtra debole tra le fronde, il tempo è distorto: dieci secondi, dieci minuti, dieci ore? Quanto ci ho messo ad attraversare quel chilometro verde? Un ultimo passo sul sentiero, mi giro, e dedico un lungo sguardo alla foresta, che si snoda senza fine davanti ai miei occhi.
Lasciati alle spalle i bambù, costeggio il fiume: l’acqua scorre lenta è ancora presto e le barche riposano, ormeggiate a riva; intravedo due aironi in lontananza.
La sera prima avevo sentito parlare di un certo Monkey Park, una riserva naturale per scimmie situata proprio al di là del fiume. Varcato un torii rosso, raggiungo l’entrata. Mi accoglie una ripida salita, una buona mezz’ora di cammino nella vegetazione asiatica, tra i cinguetti di uccelli sconosciuti. Incontro poco più in là le prime scimmie, madre e figlio dormienti all’ombra di un cespuglio. Ancora qualche passo e mi rendo conto di essere ormai nel loro quartier generale: sono ovunque, di ogni dimensione e impegnate nelle più varie attività, totalmente indisturbate. È infatti presente soltanto una struttura artificiale, riservata non agli animali, ma agli umani: siamo noi a dover stare in gabbia, cercando di conquistare il loro favore con frutta e noccioline. Le scimmie possono interagire, ma a loro discrezione. Nella riserva vivono più di 170 esemplari, completamente liberi e accuditi dagli studenti di zoologia dell’università di Kyoto.

Salutati i macachi giapponesi, scendo dalla collina di Iwatayama e, seguendo la strada principale, dove negozietti di dolci e souvenirs si alternano senza sosta, riconosco i kanji che formano la parola “tempio” (寺院): sono arrivata alle porte del Tenryu-ji, una delle principali sedi del Buddhismo Zen Rinzai. I maestosi portali di legno scuro danno sul giardino di cui noto subito il terreno ghiaioso perfettamente rastrellato: si estende parecchio, circondando l’edificio principale di fiori, muschio e alberi, ed è curato, così come la foresta di bambù ai confini Est, dai monaci del tempio. Lavorare, prendendosi cura della natura, non è altro che un modo per meditare. Non è difficile cogliere l’armonia che permea l’ambiente: ogni elemento ha il suo posto, ogni pianta il suo spazio, il prato di muschio accoglie azalee, rododendri e ginkgo biloba, nonché ciliegi in fiore. Stretti sentieri lastricati in pietra guidano i visitatori e nei ruscelli guizzano le famose carpe Koi (), simbolo di coraggio, perseveranza e forza.

Se il Tenryu-ji è stato il primo contatto con il Buddhismo Zen giapponese, una conoscenza più approfondita del mondo religioso nipponico è avvenuta la mattina dopo, al maestoso Kiyomizu-dera, che torreggia sul quartiere di Higashiyama. Emblema materiale della coesistenza di Buddhismo e Shintoismo, il complesso templare è dedicato alla purezza e il suo nome significa, per l’appunto, “tempio dell’acqua pura”. La presenza ingombrante dei turisti tra i portali vermiglio e sulle scalinate costellate da cartoncini scaccia-spiriti e draghi di pietra non mi ha permesso di godere della bellezza del luogo, spingendomi a tornarvi nuovamente, e questa volta all’alba, poco prima del mio rientro in Italia. Respiro profondamente mentre, nel silenzio, seguo i profili aguzzi dei tetti di Kyoto disegnati sul cielo antelucano, mi appoggio alle pareti lignee, verdi, bianche, arancioni, spingo lo sguardo fino alla cintura di montagne che cinge la città. Dai piedi di una pagoda, osservo, al limite della commozione, le sue stradine antiche ancora assopite. E il cielo si colora di rosso, mentre sola vago a Ninenzaka, il quartiere dei mercanti e degli artigiani: un’ora di estasi contemplativa prima che fattorini, commercianti, cani, comincino ad affacciarsi dalle casette in legno, invadendo il mio campo visivo. Qualcuno mi saluta sorpreso, un vecchino mi regala una caramella.

Per densità di turisti il Kiyomizu-Dera gareggia con il Kinkaku-ji, altrimenti detto Padiglione d’Oro, una pagoda dorata a tre piani. Superata l’interminabile coda, ricevuto un bellissimo biglietto-pergamena, mi si è palesato in tutta la sua sfrontata bellezza, riflesso sullo stagno Kyoko. Sotto il sole rovente di luglio, complici le suggestioni di Mishima, ne ho compreso l’inscalfibile splendore. Distrutto nel 1950 da un incendio appiccato da un monaco buddhista – in un atto di follia, forse sconvolto dal peso della perfezione, come il protagonista del romanzo di Yukio Mishima –, il tempio è risorto dalle sue ceneri, proprio come la fenice che lo sormonta. Ogni dettaglio in Giappone ha un valore e un significato ben precisi: l’oro, che dalla ricostruzione riveste anche il piano inferiore, è stato scelto per purificare il paese dai pensieri negativi e dalla tristezza che l’ondata di morte della seconda guerra mondiale aveva lasciato dietro di sé.
Mishima, l’ultimo a commettere seppuku (切腹), il suicidio rituale, parla così del tempio: “Sembrava che quanto avevo nutrito con i miei sogni fosse divenuto realtà ed ora di nuovo mi stimolasse a sognare”. Conosco bene la sensazione: è stata la mia più fedele compagna durante l’esplorazione di Kyoto.

 

Un pensiero su “Kyoto: frammenti di sogno giapponese

  1. Bellissimo reportage, complimenti! Devo dire che è sempre stato il mio sogno andare in Giappone e dopo aver letto tutto questo mi sembra ancora più fantastico. Tutto è descritto in modo impeccabile e rende proprio bene l’idea di quanto possa essere stupendo. Spero presto di avere l’occasione adatta per visitarlo e terró presente tutti i vari luoghi citati qui come punto di riferimento.

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