Pagine da un’Itaca del Nord

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La lettura di Isola è un viaggio in nave, in cui si è talvolta sballottati e talvolta cullati dai movimenti delle onde del Mare del Nord, circondati dall’odore del pesce e dei boschi.
Il romanzo d’esordio dell’autrice danese – ma di origine faroesi – Siri Ranva Hjelm Jacobsen e pubblicato da Iperborea ci porta costantemente avanti e indietro tra i fiordi e i villaggi di pescatori delle isole Faroe e il “Paese del burro”, la Danimarca, seguendo le direzioni opposte delle due donne protagoniste del romanzo. Da una parte si ha la giovane e coraggiosa Marita che, alla fine degli anni Trenta, lascia la sua nativa Suðuroy – l’isola più meridionale dell’arcipelago – per emigrare a Copenaghen insieme al giovane Fritz, pescatore nell’Artico; dall’altra sua nipote che, a distanza di anni, torna alle Faroe e cerca di riscoprire così una parte delle proprie origini.
La ragazza, la sua omma Marita e il suo abbi Fritz non sono tuttavia i soli abitanti che popolano il romanzo: a loro si accompagna una serie di altri personaggi che danno alla storia il fascino di una saga nordica in prosa e dai toni nostalgici. Dalla madre della ragazza e suo marito “Tarantola” alle vecchie signore dell’aeroporto di Vágar, dal giovane musicista faroese di una bettola di Copenaghen a Ragnar il Rosso, ora sposato a zia Beate ma che in gioventù aveva amato Marita.

Il romanzo si delinea come una storia di contrasti e contrapposizioni: innanzitutto, quello tra le Faroe, con i loro paesaggi selvaggi e una natura che ancora si impone sull’uomo, e la Danimarca, porta sull’Europa e della modernità. È proprio per garantirsi un futuro migliore che Marita decise di lasciare Suðuroy e di cercare di farsi una nuova vita come infermiera sul continente.
Se però la contrapposizione più evidente tra le pagine è quella tra le Faroe e la Danimarca, è anche vero che il romanzo indaga a livello molto più profondo il contrasto tra i concetti di “isola” e “continente” con un più ampio respiro. I faroesi sono isolani, soggetti sì politicamente al Regno di Danimarca ma con una forte identità propria e di cui vanno fieri. Sanno di vivere isolati, staccati dal resto del mondo nel mezzo del Mare del Nord, e di questo fanno la propria forza: essere lontani da tutti è una conferma della propria unicità, del proprio essere una cosa a sè; “Questa non è Europa. Queste sono le Faroe. Hette er Føroyar“, afferma una donna durante una concitata discussione all’aeroporto di Vágar.
È chiaro però come la natura insulare di un popolo vada ben oltre la mera constatazione geografica, e come si tratti in realtà di un tema che tocca la natura più profonda dell’uomo e la travolge con la sua problematicità: possiamo davvero tutti ritenerci delle isole, indipendenti e staccate dal resto dei nostri simili? O siamo piuttosto un continente, con i suoi istmi e le sue penisole che vanno sì in direzioni diverse ma restano pur sempre collegati? E se John Donne già nel XVII secolo sembrava non avere dubbi sul fatto che “No man is an island entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main”, questo romanzo affronta il problema senza darne per scontata la risposta.
Il tema dell’isola è presente anche in un’ulteriore accezione: quella dell’archetipica Itaca di Odisseo, l’isola per antonomasia (ma non necessariamente fisica e tangibile) da cui in qualche modo siamo partiti e verso cui navighiamo tra mille difficoltà, sperando di giungere un giorno al porto che tanto abbiamo agognato. Con un filo rosso che scorre dal Mediterraneo al Mare dal Nord, dall’epos greco alla contemporaneità della Scandinavia, Siri Ranva Hjelm Jacobsen parla con commuovente delicatezza della Itaca che ciascuno di noi ha: il luogo fisico – come le isole Faroe per la nipote di Marita – o solo mentale in cui vorremmo tornare per sentirci davvero realizzati, in pace con noi stessi.
Non stupisce, quindi, che per questo libro sia stato scelto un titolo così – solo apparentemente! – banale: Isola è la parola che meglio riunisce la poliedrica profondità di queste pagine. Questo aspetto è ancora più evidente nell’originale danese, il cui titolo racchiude questa molteplicità di aspetti in una sola e semplice vocale: Ø.

“Quel weekend raccontai a me stessa che ero nata a Vágar, a Gásadalur, un mattino insieme alla pioggia. Volevo che un germe di me fosse spuntato qui e vi appartenesse, fosse parte della pietra, dell’aria verde”.
Isola è dunque il romanzo di chi naviga alla ricerca di qualcosa, della propria Itaca, delle proprie radici, della propria cultura. Proprio come la nipote di Marita che, nata in Danimarca, torna sulle isole alla ricerca di qualcosa che sente nel proprio DNA ma che, da emigrata di terza generazione, non ha mai vissuto davvero.
L’emigrazione e il distacco culturale che ne deriva sono un’altra delle questioni toccate dal romanzo: la nipote di Marita sente in qualche modo di appartenere alla isole sebbene sia nata in Danimarca e alle Faroe non abbia mai vissuto. Questa terra fa parte della sua essenza ma le è anche in qualche modo preclusa. È quando incontra a Copenaghen un giovane musicista faroese, che al suo invito di considerarla quasi una conterranea risponde che lei di faroese “non sa nemmeno pronunciare il suo nome”, che la giovane si trova spiazzata e persa al pensiero di trovarsi a metà fra due terre senza davvero appartenere a nessuna. Ed il giovane musicista ha ragione: le isole lasciate decenni prima dalla nonna Marita hanno ormai poco in comune con la sua esistenza danese.
Questo romanzo pone dunque anche l’accento su una questione che ben conosciamo – quella dell’emigrazione e dei problemi di identità culturale affrontati dalle generazioni successive – e che è oggi quotidianamente sotto i nostri occhi ma che ci sorprende se immaginiamo a queste latitudini e in questi mari.

Infine non si può parlare di letteratura della Scandinavia senza menzionare un aspetto fondamentale: il ruolo che la natura ha in queste pagine. Tutti gli amanti del Nord – ma non solo – si aspettano forse che essa abbia un ruolo preponderante in un romanzo che parla di isole brulle e selvagge. E in effetti ce l’ha, ma non come si potrebbe pensare: questo non è un libro di stupefacenti descrizioni di fiordi a cascate, di quadri naturali mozzafiato che ritraggono un uomo piccolissimo messo romanticamente davanti a elementi naturali impervi e potenti. No: della natura si citano piuttosto singoli elementi che vengono saggiamente accostati a oggetti del tutto estranei e che quindi donano loro una nuova forza, una vitalità che si sprigiona dall’insolito. È così che, per esempio, vengono descritti i personaggi: i loro corpi hanno in sé qualcosa del mare e del pesce, il sangue traspare azzurrino o verdognolo attraverso la pelle – a seconda che la persona abbia preso più dall’oceano o dalla palude -, il bosco rende le mani nodose e l’erba i fusti flessibili. Il modo in cui la natura viene introdotta dall’autrice è dunque molto più sottile di una semplice descrizione carica di pathos: si trasmette così proprio l’idea di come la natura faccia parte naturalmente dei faroesi e sia fortemente compenetrata nella loro stessa essenza.

Isola è dunque un libro che accompagna il lettore passo dopo passo in un viaggio di scoperta, non solo di un pezzetto di mondo a cui poco pensiamo ma anche di noi stessi. Un libro che forse sembra iniziare in tono sommesso ma che poi – proprio come Sinklars Visa, la ballata faroese che viene danzata in uno degli ultimi capitoli – ci incalza con il proprio ritmo fino a travolgerci del tutto.

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