Elfo Puccini novembre 2015: Salomè l’ultima recita

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Ogni uomo uccide ciò che ama“: parole che risuonano ancora e ancora nella testa dello spettatore quando la luce in sala si riaccende. Perché quello che si è appena visto è uno di quei rari spettacoli che va oltre la semplice trama per toccare qualcosa di universale, in questo caso quel Giano bifronte che è l’amore-dolore.
La pièce è Salomè, nuovamente in scena all’Elfo Puccini di Milano -fino al 22 novembre- dopo il debutto della stagione 2010-2011. Uno spettacolo tratto da Oscar Wilde, o meglio su Oscar Wilde. Il titolo allude infatti significativamente all’ossatura portante della rappresentazione, l’omonimo dramma dell’autore inglese, ma a questa trama Ferdinando Bruni e Francesco Frongia intrecciano con grandissima abilità un ordito di citazioni da opere autobiografiche di Wilde, dal De profundis e dalla Ballata del carcere di Reading innanzitutto, diventando così veri e propri autori-registi di un testo composto di parole altrui. E con l’abilità già più volte mostrata in precedenti produzioni la coppia Bruni-Frongia mostra di sapere irrorare ancora di sangue vivo un capolavoro del passato per farlo parlare a tutti noi, qui e oggi.
È così che in un circo di inizio Novecento va in scena al suono schioccante della frusta del presentatore una fiera degli orrori che vede danzare Amore e Morte: nel rosso dominante dei tessuti, tra tappeti mediorientali e foto erotiche, sotto luci ora glaciali ora caldissime ecco una Salomè che subito dopo diventa racconto di una vita, quella di Wilde, quella di tutti noi. Unica pecca -una scenografia che porta all’estremo lo spirito di ostentazione sempre presente nell’estetismo inglese- la scelta di riutilizzare elementi della messinscena de L’ignorante e il folle di Bernhard della scorsa stagione.
In scena solo tre attori, tutti uomini. Enzo Curcurù è un provocante presentatore dell’orrore circense, poi umano e sofferente giovane guerriero siriano e infine Erodiade fin troppo portata all’esasperazione da una scelta registica che ne fa una macchietta da teatro dei pupi. Accanto a lui Ferdinando Bruni che offre il volto a tre personaggi con straordinaria intuizione sovrapposti gli uni agli altri, vittime e carnefici di se stessi per amore, dal profeta Iokanaan a Erode, fino all’autore stesso, Oscar Wilde, che in quei personaggi continua a essere visibile. E poi lo splendido Mauro Bernardi, impenetrabile, sensualissima, glaciale Salomè dal colore d’avorio che risplende di un alone divino (o forse infernale?) sotto le precisissime luci della scena curate da Nando Frigerio. Memorabile la danza di morte di Bernardi-Salomè, intrisa di erotismo ed eleganza, su un giradischi di luce che ne fa un numero quasi da burlesque in una messinscena che coscientemente ama giocare tra i generi più diversi e provocanti.
Il pubblico è trascinato nello spettacolo, dapprima è pieno di dubbi; lo senti rumoreggiare in sala, ridacchiare, forse è anche irritato da quella che all’inizio sembra una profanazione dell’opera di Wilde ma che si rivelerà essere una lettura più profonda di ogni critica letteraria: dietro il volto di Salomè è sempre, costantemente visibile il viso di lord Alfred Douglas, il giovane oggetto di quell’amore che condurrà Wilde in carcere e poi alla dolorosa esperienza di una fine senza nome e senza dignità. Non c’è alcuna volontà di rendere donna la principessa siriana: qualche abito provocante, ma il corpo rimarrà sempre quello di un uomo, non di una drag-queen. E nella scena finale la sovrapposizione è ormai completa. Quel bacio, che Salomé scambia con la testa mozzata e sanguinante di un Iokanaan che recita la Ballata del carcere di Reading, è il bacio di un amore che ha rinunciato a distinguersi dal dolore. Forse nemici indistinguibili. Forse semplicemente, e terribilmente, unica entità. E così quel pubblico dapprima scettico ora non può che tacere e vedere lì, sul tappeto rosso della scena, la propria storia personale.

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