Elfo Puccini marzo 2016: Il bugiardo

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Carlo Goldoni è tornato a calcare i palcoscenici. L’autore che nel ‘700 borghese prese la commedia dell’arte e creò qualcosa di nuovo con la centralità del copione scritto oggi popola (quasi arrivando all’eccesso) i cartelloni di molti teatri, compreso quello dell’Elfo Puccini di Milano che propone in questi giorni “Il bugiardo” della Popular Shakespeare Kompany. Una scelta non troppo felice.
Il drammaturgo veneto scrisse quest’opera in tre atti nel 1750, nel mezzo di quel periodo di frenetica produzione per la compagnia Medebach del teatro Sant’Angelo di Venezia per la quale Goldoni arrivò a scrivere anche sedici testi l’anno. Nonostante il ritmo di scrittura così elevato, o forse proprio a causa di esso, queste commedie non perdono di qualità. “Il bugiardo”, in particolar modo, porta quasi alla rottura per eccesso il sistema a incastro della commedia degli equivoci, in una serie di storie d’amore che si intrecciano tra forestieri e persone di casa Balanzoni. Protagonista, più che una specifica persona, la menzogna, che domina il palcoscenico dal titolo ai più piccoli gesti dei personaggi: si mente per vergogna del proprio amore, per creare mistero, per ingannare, per fingersi altri, per vantarsi, e ogni “spiritosa invenzione” non fa che creare altri equivoci, altre incomprensioni, altre complicazioni, fino al finale colorito di moralità dove il bugiardo Lelio Bisognosi si pente di tutte le sue falsità.
Valerio Binasco, regista dello spettacolo in scena all’Elfo Puccini fino al 13 marzo, si adegua – verrebbe da dire – alla tendenza oggi imperante di attualizzare i capolavori. Con scarsi risultati. Vero, le opere del passato sono in alcuni casi lontane da noi, nel linguaggio, nel riferimento sociale, nell’intertestualità, e spesso a teatro ci risulta difficile digerirle se non attraverso un’esperta mediazione. L’attualizzazione, tuttavia, riesce solo se la si attua intorno a un fil rouge solidamente presente nel testo di partenza; in caso contrario diventa banale invenzione fine a se stessa che non solo snatura l’originale ma, perdendone il senso, finisce per non comunicare nulla. E alla fine della messinscena del “Bugiardo” goldoniano è proprio questo il retrogusto che rimane in bocca allo spettatore.
Davanti a un cielo che sembra uscire dai capolavori della pittura veneta l’azione si svolge in una scenografia che vorrebbe essere minimalista ma risulta soltanto approssimativa. Alla sensazione di disordine, un disordine che nasce dalla mancanza di controllo, contribuiscono costumi ed effetti musicali: ci troviamo in un salotto di fine ‘800? In una faida di mafia newyorkese? Nel Piper degli anni d’oro? Sorge spontaneo il dubbio se il testo e l’idea registico-scenografica si siano mai incontrati.
La scelta di non modificare il testo goldoniano, anche sfidando il pubblico, è da apprezzare. Sarebbe stata efficace se solo non si fosse pensato bene di accelerare la dizione, forse nell’illusione di finire prima (sic). Risultano ad esempio incomprensibili, nell’atteggiamento e nella parola, alcuni personaggi, come Pantalone; più efficaci (ma guastate da costume e impostazione) le due sorelle Roasaura e Beatrice. Tra i personaggi principali, interpretati da una Popular Shakespeare Kompany alla ricerca del risparmio di efficacia, spicca solo Maurizio Lastrico, noto al grande pubblico grazie a Zelig, felice interprete del menzognero protagonista Lelio Bisognosi, giovane, spavaldo e dalla psicologia complessa. E paradossalmente nella messinscena di una commedia di Goldoni, che per primo cercò di liberare i personaggi dai tipi fissi per dotarli di caratteri, a spiccare per interpretazione sono proprio le maschere di servi, in primis l’Arlecchino di Sergio Romano con la sua interpretazione genuina e divertente e la Colombina di Maria Sofia Alleva.
Certamente “Il bugiardo” è una commedia che fa sorridere, perché Goldoni rimane sempre Goldoni. Ma ben di meglio meriterebbero l’autore settecentesco e il pubblico.

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