Un eterno ritorno

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Un pallido sole di metà ottobre sfiorava con le sue lunghe dite aranciate la spigolosa e austera linea della casa, che si ergeva con immane sforzo nella via, sola con la sua lunga ombra.
Il tetto una volta fiero e solido con le sue tegole arcuate e ben disposte adesso appariva malconcio e sgangherato come la bocca sdentata di una vecchia cartomante da fiera. I doccioni una volta arcigni guardiani delle grondaie sotto le spire dell’edera infestante e del muschio parevano sinistre creature imprigionate dalle catene di un qualche sortilegio. Era deserta la via: neppure una delle eleganti villette che vi riposavano placidamente era sopravvissuta, ma non vi erano macerie ad indicare la loro passata esistenza. La natura aveva ingoiato nuovamente quell’angolo di mondo quasi che l’uomo non vi avesse mai messo piede: l’erba e i rovi si erano insinuati tra l’asfalto spezzandolo e la fermata dell’autobus qualche metro più in là della casa era lo scheletro arrugginito di se stessa. Solo il vento si divertiva ancora a frequentare quella zona, provocando dolorosi gemiti agli stipiti delle porte e alle insegne dei locali abbandonati.
Alice prese un respiro profondo, sollevò la sua valigetta da terra e spinse la porta appoggiandosi sul grande batacchio di bronzo ad anello che recava il motto della famiglia: “Nunquam fracti”. Non riuscì a frenare una smorfia nel percepire sotto le dita le pompose e ingenue parole latine impresse nel metallo. Il portone si spalancò senza opporre resistenza come una palpebra senza vita si spalanca su di una pupilla vitrea e immobile.
Tutto era rimasto com’era: non un vaso in pezzi, una stoffa sfregiata o una scritta denigratoria sul muro. Nessuno aveva osato profanare la casa, che era piombata in una solenne cortina d’eternità come una vecchia fotografia di fine secolo. Il lampadario ormai rifugio di ragni e topi d’ogni specie continuava a esporre opulento i propri cristalli allo sguardo penetrante della luce. Il caminetto conservava ancora tracce dell’ultimo fuoco e il tappeto consunto e sfibrato si sforzava ancora di coprire le scure assi del pavimento. Forse dopotutto il motto non era così mancato. Sembrava quasi che la casa si sforzasse ostinatamente di reggere alla mannaia del tempo, incassando ogni colpo come se non fosse mai stato inferto, come se avesse ereditato il temperamento orgoglioso di chi un tempo l’aveva abitata.
Lo sguardo di Alice si posò sull’elegante scalinata di mogano che portava al piano superiore. Un gradino dopo l’altro si ritrovò in cima al lungo corridoio al termine del quale l’attendeva la sua stanza nascosta dietro la porta bianca ancora immacolata. I ricordi riposti a forza nell’angolo buio della mente cominciarono a fluire liberamente quasi rompendo gli argini della memoria cosciente e li rivide tutti in sala impettiti e silenziosi; a tavola impeccabili e cortesi; in casa, freddi, murati nelle loro granitiche custodie d’omertà. Eccoli i grigi fantasmi della sua infanzia, i tarli della sua adolescenza, le cancrene della sua esistenza, che parevano averla attesa liofilizzati in quella casa maledetta e che adesso prendevano corpo rinvigoriti dalla sua presenza di essere vivente frusciando e vociando attorno alla sua mente come uno sciame di corvi gracchianti. Corse in camera in cerca di conforto come faceva una volta, il suo letto era ancora lì con sopra un libro mezzo aperto vicino alla finestra affacciata sui campi dalla quale tante volte aveva levato lo sguardo verso le montagne in lontananza verso l’orizzonte, verso un futuro che non faceva altro se non farsi attendere e che lei amava aspettare ogni giorno con un sottile piacere. Quanti anni si erano consumati, quanta vita si era spenta tra quella carta da parati a fiori, quante parole color d’inchiostro avevano preso vita dalla punta del suo affilato pennino per poi finire accartocciate sul pavimento, quanti sguardi ostili e beffardi l’avevano squadrata. Neppure lei sapeva perché era tornata, sapeva solo che dovunque si trovasse, qualunque cosa tentasse di fare, l’ombra della casa le oscurava la vista, rendendola un molle e disarticolato fantoccio di cartapesta. Quando quella domenica dopo la messa se n’era andata credeva di aver divelto una volta per tutte le catene che la prostravano, che la costringevano in quel luogo dimenticato da Dio, ma il peso della sua esistenza le si era aggrappato
per bene all’anima, e lei lo aveva portato con se come un folletto malefico, che lentamente un giorno dopo l’altro l’aveva sopraffatta, l’aveva fatta incespicare e cadere. Era tornata perché non sapeva dove andare, era tornata perché era stata ovunque e ovunque aveva visto il volto ghignante del suo destino. In ogni cielo che aveva consultato aveva scorto le stelle che la inchiodavano. Si era ribellata rabbiosa e superba al giogo che la trascinava e adesso spezzata ed esangue, voleva rivedere il solco da cui era partita, che le aveva scavato il cuore. Uscì meccanicamente senza voltarsi e risalì sull’auto che l’aveva portata fino lì. Farfugliò un indirizzo per il conducente e rimase in attesa, seduta come seguendo un istinto connaturato, con gli occhi fissi sull’orizzonte, come aspettando che qualcosa di meraviglioso le si materializzasse davanti, come aveva fatto per tutta la vita.

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