Nell’URSS di Marina Stepnova: Le donne di Lazar’

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Le donne di Lazar’ – della scrittrice russa Marina Stepnov – è una saga familiare lunga un secolo, animata prevalentemente da personaggi femminili che gravitano intorno alla figura di Lazar’ Lindt, ecclettico genio della fisica di origini ebraiche. A rendere il romanzo uno dei libri di spicco del panorama letterario russo contemporaneo, oltre a un intreccio intrigante e una capacità di introspezione degna dei migliori modernisti, è il lucido affresco dell’Unione Sovietica che ne emerge. Il libro – portato in Italia da Voland nella traduzione di Corrado Piazzetta – è estremamente interessante anche per il lettore italiano, perché gli permette di capire chi siano quei russi con cui sempre più spesso si ha a che fare – che si tratti di turisti o partner commerciali – e che dell’esperienza sovietica sono ancora il prodotto.
Ciliegina sulla torta è lo stile mordace ma allo stesso tempo elegante dell’autrice, che alterna registri diversi in perfetta armonia con le vicende narrate.

Le origini ebraiche di Lazar’ offrono la possibilità di evidenziare il ruolo di primo piano ricoperto dagli ebrei russi nella nascita dello stato sovietico. Ebreo era il rivoluzionario LevTrockij, e origini ebraiche da parte di madre aveva anche lo stesso Lenin, per esempio. Se nell’impero zarista gli ebrei erano stati costretti a vivere in una “zona di residenza” ai confini occidentali e negli ultimi decenni prima della rivoluzione avevano subito pesanti persecuzioni (i cosiddetti pogromy), in un primo momento il neonato stato sovietico sembrò loro più favorevole, con l’abolizione di ogni precedente restrizione e una conseguente rinascita culturale. Ma quando anche l’URSS iniziò le sue repressioni, tra i primi a farne le spese ci furono proprio a loro, per via della lotta contro la religione e delle manovre economiche a danno della borghesia. Del resto, di lì a poco, il gigante sovietico non avrebbe più fatto differenze fra le sue vittime, divorandole «senza distinzione tra kasher e non kasher».

Lazar’, però, è uno scienziato, fiore all’occhiello del regime perché a capo del programma nucleare, e pertanto gode di un trattamento privilegiato; persino durante le fasi più buie della Seconda guerra mondiale: mentre al fronte i soldati muoiono come mosche e nelle fabbriche i civili – soprattutto donne e bambini – lavorano senza sosta patendo il freddo e la fame, gli accademici sono evacuati dalle zone a rischio e trasferiti in Siberia, dove vengono loro assegnate case padronali e razioni di cibo quasi pari a quelle dei soldati. Non avendo mezzi sufficienti per provvedere a tutti, «il paese si comportava con severità e sorprendente ragionevolezza, come un enorme organismo morente: obbedendo alle leggi della biologia, spegneva uno dopo l’altro i sistemi senza i quali poteva sopravvivere, tirare avanti ancora un po’, pur di preservare le parti più importanti, cuore e cervello».

La capacità di uscire vincitori da una situazione così disperata produce, nel secondo dopoguerra, una generazione di giovani fortemente nazionalisti, con una visione idealizzata e a tratti naif del proprio paese. Quando la giovane Galina Petrovna vede per la prima volta il vecchio Lazar’, suo futuro marito, non riesce nemmeno a immaginare che possa trattarsi di un genio: per lei è solo un vecchietto ignorante venuto in università per accompagnare qualcuno o per tentare di colmare le proprie lacune intellettuali. Per il giovane sovietico dell’epoca, infatti, «tutti i nati prima della rivoluzione erano idioti analfabeti e stolti, ai quali lo Stato sovietico ha donato le palline di vetro per decorare l’albero, le lampadine di Vladimir Il’ič e l’abbecedario». A cotanta superiorità intellettuale si abbinerebbe poi un’uguale superiorità morale: può forse conoscere l’inganno e la malvagità un popolo che ha speso settanta milioni di vite per il paese? Ecco, quindi, che per Galina risulta ancora più incredibile che il vecchio Lazar’ possa indurla col ricatto a sposarlo contro la sua volontà: «un ADULTO, anziano, di sicuro non poteva farle del male». E sempre in virtù di questa superiorità morale, quando diventa madre si costringe a occuparsi del figlio pur non amandolo, perché era «una cittadina sovietica», non «una maledetta fascista e neppure un’americana».

Questo amore per la patria rimarrà pressoché immutato anche col declino del potere sovietico e, in certi casi, fino ai giorni nostri. I giovani della perestrojka – cresciuti ascoltando dischi stranieri e leggendo autori vietati – ora vorrebbero «seppellire Lenin, dimenticare Stalin» e inaugurare una nuova democrazia sovietica senza demolire nulla, solo migliorando quanto già c’è di buono. Pur criticando il governo tra un bicchierino di vodka e l’altro, pur cantando sulle note dei Beatles e dei Rolling Stones, restano, infatti, «cittadini sovietici fino al midollo», e lo resteranno per sempre. Anche dopo la caduta del muro di Berlino, anche dopo la disgregazione dell’URSS e la crisi politico-economica che ne deriverà, quest’ultima generazione di sovietici continuerà a ricordare con affetto e nostalgia la propria infanzia magari non libera ma spensierata, a base di istruzione gratuita, prezzi stracciati, film sugli eroi di guerra, grandi celebrazioni per la festa dei lavoratori e della vittoria, audiocassette e riviste vietate scambiate fra amici e una certezza piovuta dall’alto: di essere nel giusto, di essere migliori. Poco importa se con stridenti contraddizioni, come l’infermiera che al comando di Galina Petrovna «Giuri su Lenin!» risponde giurando e facendosi il segno della croce. 

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