Fortunata da morire

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Il sole splendeva, caldo e alto nel cielo. « Carlo! Cugino Carlo!» chiamavo, tentando di inseguire il mio instancabile compagno di giochi. Sentivo che non sarei riuscita a raggiungerlo se non avessi spronato con più forza il mio corpo che, nonostante la gracilità dell’infanzia, sapevo essere abbastanza forte per soddisfare le mie esigenze. Tirai un lungo respiro, sollevai i vari strati della gonna oltre il limite della decenza e infusi quanta più forza potei nei polpacci, finchè non li sentii bruciare. Non mi accorsi nemmeno di aver raggiunto il piccolo Carlo, e nemmeno di averlo poi sorpassato; all’improvviso non ricordavo più lo scopo per cui avevo deciso di correre più forte. Non avevo più bisogno di uno scopo! Non mi delusero le mie gambette sottili, come non mi deluse mai l’intero mio corpo per il resto della mia vita; la mia persona fisica è sempre stata il mio unico e più importante sostegno. Lasciandomi cadere tra l’erba, una volta sazia della mia corsa, intuii soddisfatta le potenzialità del fisico umano, in particolare del mio, godendomi tra i respiri affannosi i lamenti di mio cugino, che non poteva accettare di essere stato superato, soprattutto da me. «Come hai fatto? Sono più bravo io in questo, lo sai!» strillava. In seguito, altri mi avrebbero fatto la stessa domanda, con o senza parole.
Il sole splendeva, caldo e alto nel cielo. Non so perchè ripenso ora a quei giorni felici d’infanzia, passati a scorrazzare insieme ai miei fratelli e cugini nelle verdi pianure bavaresi, più simili a cuccioli di animali che a piccoli privilegiati. E allora era così che ci sentivamo, incoscienti nella nostra ingenuità di bambini: privilegiati, in quanto felici e, credevamo, liberi. Ci sentivamo piccoli puledri, instancabili e selvaggi, io più di tutti, identificando la mia anima con quella dei forti cavalli della scuderia della nostra residenza. E infatti non ho mai rinunciato a cavalcare, nonostante i tentativi di dissuadermi dettati dalle convenzioni legate al mio rango; io non sono completa, se non libera di correre incontro al vento con un’altra creatura indomabile. Non sono mai riuscita a rinunciare a tutti i miei io, nonostante la disapprovazione pubblica, nonostante i momenti in cui non sapevo più definire il concetto di io, confusa da tutto ciò che mi circondava. Fui costretta a trattare la mia persona come una proprietà di Stato, ma decisi io come farlo, in barba ai molti cenni di dissenso intorno a me. Lo forgiai come si forgia un’opera d’arte: con maniacale cura e devozione, ma allo stesso tempo con inflessibile severità, ricordando costantemente che la mia era un’anima da amazzone, e il corpo non poteva essere da meno. Non ero più una piccola bavarese libera, non avevo più questo privilegio; Amore aveva fatto sì che ricevessi quello che è comunemente ritenuto il privilegio maggiore, a prezzo di quello antico. Perciò, l’unica libertà che mi rimaneva era quella sulla mia immediata fisicità, la libertà di usarla come splendida ma impenetrabile arma contro ogni avversità.
Ora so perchè ripenso alla mia infanzia, e poi a ciò che ho fatto di me, o meglio a ciò che
è stato fatto di me. Il motivo è sempre lo stesso: un fiero involucro di vanità e amarezza, avvolto nell’incertezza. Ripenso alla libertà, prima quella effettiva, poi a quella estetica, perchè ora sento di non possedere più nessuna delle due; vesto di nero da tempo e non accenno a smettere: perchè nero è il mio cuore, e dietro l’oscurità ho deciso di celare l’arma che non ho più la forza di usare. «Se fossi uno specchio mi guardereste più spesso, madre» dicevi, figlio mio; e se tu ora sei nelle tenebre, nelle tenebre rimarrà ogni specchio, perchè niente possa vedermi se non puoi più tu. Nascondo per sempre questo scudo che ha abbagliato e sviato molti, compreso tuo padre, allontanandoli da ciò che celavo sotto.
Mi alzo, mi sistemo il vestito vedendo la mia compagna di viaggio, la contessa, tornare verso di me dopo aver recuperato il fazzoletto che credeva di aver perso; un piccolo contrattempo che mi è stato caro, concedendomi questi brevi momenti di solitudine. Agognata solitudine. Le dò il braccio e ci avviamo verso il battello diretto a Montreux, come da programma; lei parla, fa previsioni e congetture sul viaggio e sul tempo e io fingo cortesemente di ascoltarla. Procedo con disattenzione, attratta da nulla, facendomi condurre dove sono attesa, come ho dovuto fare troppe volte in passato. Ma questa mancanza di concentrazione e controllo mi ha sempre punita in qualche modo, e lo fa ancora adesso in un modo totalmente nuovo e repentino: un uomo sbuca da dietro un ippocastano e subito mi è addosso! Non so chi sia, viene allontanato immediatamente e senza troppe cerimonie mi rialzo prontamente, decisa a non perdere tempo con inutili e superflue attenzioni; trascino la mia compagna verso il battello, fuggendo da ulteriori sguardi, e saliamo finalmente sul battello. L’acqua brilla sotto il sole, piatta, insoddisfacente per un’amante delle tempeste marine come me; vorrei poter ancora viaggiare in mezzo a un mare tumultuoso, legata a qualcosa di solido per sicurezza, ma sotto la forte pioggia e preda degli scrosci d’acqua che si riverserebbero sul ponte della nave. A parte le corse a cavallo, niente mi faceva sentire più viva. Di sicuro più viva di come mi sento ora; mi accorgo che le gambe cedono, cosa piuttosto insolita. Mi guardo intorno, ma subito mi ritrovo a terra, la testa riparata appena in tempo dal braccio della contessa; vedo il suo volto e altri ammassarsi sopra di me, oscurando la luce del sole. Mi sento soffocare, cerco di respirare a fondo ma avverto un forte dolore al petto, e vi porto istintivamente una mano; appena l’indice tocca il punto del dolore, qualcuno mi prende il polso e mi tiene entrambe le braccia giù, probabilmente perchè non possa più coprire il petto. Ma ho fatto in tempo a sentire il calore del liquido che scorre sul corpetto: il mio sangue. Sono ferita, e lentamente mi sento scivolare verso quella inesorabile oscurità. I pensieri più drammatici – le persone amate che mi aspettano nel buio, le passioni insoddisfatte, i sogni utopici – si trasformano in domande, quesiti persino ridicoli: che fine assurda! Morire per distrazione, tipico di una sciocca, «tipico di te», mormorerebbe a labbra strette mia suocera se potesse vedermi. Lei, l’irreprensibile austriaca, la mia maggiore nemica, tronfia dei suoi diritti e titoli. E i miei diritti, i miei titoli? Al mio funerale elencheranno tutti i miei titoli? Come si riferiranno d’ora in poi a me, alla mia memoria? Chi sono io? Sono l’imperatrice consorte d’Austria, regina apostolica di
Ungheria, regina consorte di Boemia; no, Santo Cielo, no! Vorrei scoppiare a ridere al pensiero di tanta solennità, ma sento delle voci. Mi stanno chiamando ora, ho corso troppo con Carlo e devo tornare a casa; li sento sempre di più reclamarmi: «Sissi! Sissi!»

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