La morte e la fanciulla

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Quella mattina camminavo a testa bassa lungo il molo, avulso da ogni pensiero. Volevo allontanarmi dal mondo circostante e dal grigiore della mia vita. Periodicamente sentivo il bisogno di rifugiarmi in un luogo che fosse più desertico possibile. La vecchia zona portuale era il posto che più soddisfava le mie esigenze. Non so come sia oggi, ma allora era fatiscente ed abbandonata. I canali di scolo rendevano l’aria fetida e difficile da sostenere a lungo; nonostante ciò ci trovavo ristoro da tutti quei compromessi e da quelle miserie che caratterizzavano la mia vita. Così è stato sino a quella mattina.
Non mi è chiaro il perché, ma quel dì non ritrovavo il sollievo di sempre nel mio piccolo angolo di degrado. Ciò non era causato dal tanfo più nauseabondo del solito, ero io che mi sentivo diverso. Camminavo interrogandomi su che cosa vi fosse di diverso in quella giornata, ma non vi era nulla di nuovo nella mia vita e neppure nell’area portuale.
Mi avviai deluso verso casa percorrendo la strada a ritroso. Le mie gambe si trascinavano una dietro l’altra come se fossero sorrette dal vento; la sua forza deviò il mio percorso verso sud in direzione della banchina, ed io non gli opposi alcuna resistenza. In quel momento realizzai che assecondarlo fosse l’unica cosa buona da fare. Ai miei occhi parve come un vecchio amico: mi consigliava la direzione giusta da prendere, ed io avrei seguito il suo consiglio di buon grado.
Se avessi saputo verso cosa andavo incontro forse avrei opposto resistenza all’amico che mi spingeva verso la rovina.
Giunto a pochi metri dall’acqua vidi delle lingue di fuoco mosse dal vento; ardevano sul capo di una giovane donna che, stando diritta in piedi, guardava verso l’orizzonte. Teneva in mano una scatola di fiammiferi e ne accendeva uno dietro l’altro: li faceva bruciare per pochi secondi tra le dita per poi gettarli in acqua. Aveva l’aspetto di coloro che stanno aspettando qualcuno o qualcosa. Il gesto inusuale, ripetuto con tanta naturalezza, non era altro che un rimandare l’accensione della sigaretta che teneva tra le labbra. Pensai per un momento che, con la medesima noncuranza, avesse acceso i suoi stessi capelli pochi istanti prima, con un semplice fiammifero.
Mi sentivo stranamente attratto e allo stesso tempo terrorizzato da quella visione che si parò davanti a me. Provai a cambiare direzione senza risultato; la mia volontà era più debole della forza del vento o di quella del destino. Giunto a pochi metri dalle sue spalle, tentai di rallentare, onde evitare di farla cascare in acqua. Alla distanza di pochi passi riuscii a fermarmi. Ero abbastanza vicino a lei da sentire il suo profumo nonostante il forte vento: era molto simile a quello delle rose quando appassiscono; non era cattivo, ma in quel momento mi nauseava.
La vicinanza mi era insopportabile. Non si era accorta di me, quindi volevo allontanarmi nella stessa maniera in cui mi ero avvicinato, ma, temendo di essere scoperto, non riuscii a muovermi. Rimasi lì, in piedi, per diversi secondi, ma, quei pochi istanti, furono interminabili e carichi d’angoscia. Trattenni il fiato nel disperato tentativo di non farmi sentire ma non resistetti a lungo. Quando ripresi a respirare nemmeno il forte vento riuscì a celare la mia presenza.
Lei si girò; non era spaventata, nemmeno sorpresa, anzi, mi parve che mi stesse aspettando. Adesso eravamo l’una difronte all’altro, ma io non la guardavo in faccia. Tenevo il mio sguardo basso rivolto verso i piedi, implorandoli, tra me e me, che si muovessero.
«C’è qualcosa che vorresti dirmi?» mi disse. Alzai gli occhi con il timore di vedere il suo viso.
Da questo momento in avanti, non mi è facile dire che cosa sia successo o che cosa abbia sentito. Nel vedere il suo viso, semplicemente mi persi. Superata la parete di fuoco che divideva il mio sguardo da lei, mi addentrai in un buio soffocante. In breve mi abituai alle tenebre che mi avvolgevano e riuscii a distinguere tre luci fioche poco distanti da me. Erano tre candele accese, poste ognuna su di un braccio di un candeliere. Quest’ultimo si trovava al centro di una tavolata di modeste dimensioni, apparecchiata per accogliere un ricco banchetto, ed io ne facevo parte. Quei colori – il rosso della tovaglia, il bianco della porcellana e l’argento delle posate – nonostante fossero illuminati da una debole luce, suscitarono un forte fastidio ai miei occhi. Mi coprii il viso con le mani, ma la curiosità vinse sulla mia insofferenza. Sforzai la vista cercando di vedere che cosa vi fosse dall’altra parte della tavola. La vidi lì, la stessa donna che si trovava sulla banchina, vestita di un abito rosso cremisi. Stava seduta di fronte a me; mi pareva a suo agio in una situazione così inusuale. Teneva stretta tra le labbra la stessa sigaretta con cui la vidi sul molo, solo che ora la sigaretta era accesa, e lei fumava lentamente.
Mi fissava negli occhi, e adesso pure io la fissavo; nemmeno per un secondo scostai lo sguardo da lei. L’ambiente che mi circondava perse ogni sorta di attrattiva. Perso dentro di lei capii di aver visto dentro di me. Non mi so spiegare il perché, ma presi il coltello alla mia destra, lo alzai e lo porsi verso di lei, come se volessi brindare con quello; subito dopo, con una forza e una sicurezza che mai avevo provato prima di allora, trapassai con la lama il mio petto. Il sangue sgorgava a fiotti, ma sulla tovaglia rossa si notava a malapena. Non mi limitai ad affondare la lama; la feci scendere verso il basso, all’altezza della terza costola, allargando così lo squarcio. Rimisi il coltello al suo posto e, con entrambe le mani, incominciai a divaricare la ferita; quando fu abbastanza larga, infilai la mia mano destra al suo interno con il preciso intento di cavarmi il cuore. Lo afferrai; era caldo e tremante, pareva quasi un uccellino ferito nella mia mano. Strappato dal petto lo posi sul candido piatto. Continuava a pulsare ma non riuscivo a sentirne il battito.
Il silenzio nella stanza era divenuto assordante. Soddisfatto, levai lo sguardo verso la donna, ma, difronte a lei, vidi il piatto nel quale avevo riposto il mio cuore. Lei aveva distolto lo sguardo dal mio e guardava il contenuto del piatto con sufficienza. Aspirò il fumo un’ultima volta dalla sua sigaretta e la spense sul mio dono. Sentii come un tonfo, ma non capii se questo riverberò nella stanza o solo nella mia testa. Mi parve di morire; la vista mi si annebbiò. Chiusi gli occhi sperando che tutto finisse, che la morte per dissanguamento o per l’eccessivo dolore sopraggiungesse. Sfortunatamente non accadde nulla di tutto ciò.
Riaprii gli occhi. Mi ritrovai nuovamente sulla banchina e la donna era ancora lì, davanti a me, e continuava a fissarmi. Ero disorientato e inquieto. Non mi era chiaro che cosa fosse successo, ma capii che qualcosa in me era cambiato. Ero forte di una nuova consapevolezza. Lei notò il mio sguardo e mi mise una mano sulla spalla con l’intenzione di sostenermi, almeno così mi parve. Mi ripresi, ma nella disperazione trovai la mia forza. Essa nacque dalla presa di coscienza di che cosa la donna rappresentava per me. Lei mi teneva prigioniero e io non potevo farci nulla. Salvandomi dalla morte mi aveva condannato ad una vita di servizio. Ero succube della passione e del sentimento che lei mi aveva suscitato in quei pochi istanti.
Tutt’oggi, dopo tanto tempo, continuo a chiedermi perché lei non reagì in nessun modo. Mi sfilai lentamente la cintura dalla vita e gliela misi intorno al collo. Strinsi sempre più, fin quando non riuscii a sentire il pulsare del suo sangue. Volevo vedere se, sotto minaccia di morte, mi avrebbe ridato la libertà. Ma non successe niente. Lei continuava a guardarmi con i suoi grandi occhi, ed io mi misi a piangere. La tirai a me con la cintura e la baciai. Lei, con le ultime forze, alzò la sua mano destra e la mise sul mio petto, sospirando con debole voce: «Sarai sempre mio». Pochi istanti dopo si spense, ed io rimasi nuovamente solo, sulla mia banchina.

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