Un mese, trenta giorni per cambiarmi. Secondo capitolo

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Suona il citofono.
È mio padre ad aprire la porta: “Maria sono arrivati” l’annuncio mi arriva da lontano.
Mi abbraccia fortissimo, senza dubbio dimenticandosi che sarei tornata da lui in quattro giorni. Per mio padre vedermi uscire con delle valigie da casa nostra era sintomo di un addio.
Stretta a lui mi sono pentita di aver deciso di andare in Toscana: sarei dovuta rimanere per fargli compagnia. Poi però, divincolandomi dall’abbraccio, ho ripensato a quanto tempo ci vuole per imparare che le cose non vanno fatte per gli altri ma per sé stessi.
Ecco, così ho cambiato subito umore.
Apro il portone di casa e c’è Gio’ che non mi sorride e fuma appoggiato alla macchina impaziente per avermi aspettato circa sette minuti. Si, devono essere stati almeno sette minuti. Mi rimprovera: “Maria tu e i tuoi ritardi.” Io invece rido e gli rispondo, come da copione, che dovrebbe essersi abituato e che dovrebbe smetterla di fumare.
Fumava una sigaretta dopo l’altra ed io, da quando avevamo 17 anni, gli ripetevo di smetterla. Non che io non fumassi, sia ben chiaro, ma la questione è diversa.
Non ci aveva mai provato, d’altronde come fa a prendere aria per considerare cosa sia giusto fare il cervello di uno che a metà sigaretta pensa già alla prossima, senza godersi neanche la prima? Non aveva mai saputo aspettare, né me né un sapore diverso dal tabacco.
In macchina ci sono Luigi ed Elena, io sono vicina a Matilde. Mi hanno lasciato il lato finestrino, una gentilezza di bentornata senza dubbio.
Andiamo piano, Gio’ sta guidando appositamente in modo così lento per sentirsi rilassato e questo mi permette di osservare meglio di fuori: guardo il mare.
Per quanto tempo si può guardare al mare? Credo ore, senza che niente dia segno di cambiare.
O fino a quando qualcuno non decide di avviare una conversazione futile.
“Maria, perché non ci dici cosa fai la sera a Madrid? Chi è Pedro?”
Ridacchiano. Ridacchio anche io per dargli una soddisfazione; mi rendo conto di non sopportarli già più ma mi rendo anche conto di dover alzare il mio livello di sopportazione almeno per questa volta. Glielo devo.
Torno a guardare fuori: mi accorgo di una coppia su un motorino, lui davanti e lei dietro. Parlano: hanno voglia di parlarsi anche per strada, quando potrebbero stare in un beato e giustificato silenzio, perché è lecito aver paura di distrarsi, di prendere una strada sbagliata o di fare un’incidente.
Quelli che hanno voglia di parlarsi anche su un motorino devono amarsi veramente tanto.

Siamo arrivati: Villa Baroni non invecchia mai e credo che abbia il poter di far sentire tutti più giovani; infatti Luigi, il più debole all’incantesimo, esce dalla macchina ed esclama “Orgia?”
Gli altri sono già arrivati, Gio’ in effetti ha guidato esageratamente piano. Ci sono Marco, Ottavia, Caterina e Federico seduti sotto l’ulivo a mangiare un po’ di frutta.
“Maria!”
Questa volta il loro entusiasmo mi rende una protagonista felice.

Ci sistemiamo nelle camere, io sono con Matilde: non dormivamo insieme da circa sei anni.
Ci hanno lasciato la stanza migliore, quella che affaccia sul giardino proprio sopra la tavolata sotto l’ulivo. Dalla finestra si sprofonda direttamente nell’odore di ibisco. In bagno mi accorgo che c’è ancora il sapone alla lavanda. Il tempo non ha agito con il suo potere su questa casa, proprio come speravamo.

Illustrazione di Alice Benza

Scendo in giardino e gli altri stanno bevendo, di già.
Ottavia chiede “Tommaso?”
“Ah ecco…Tommaso… sì dovrebbe arrivare per le 8. È successa una cosa… suo padre in ospedale, non ho ben capito ma non credo sia grave” risponde Luigi.
“Cavolo, però viene no?”
“Ma si certo, starà arrivando.”
Dubbiosa, nella paura di essermi dimenticata dell’esistenza di qualche mio amico, chiedo “Ma chi è Tommaso?”
“Tommaso Lucarelli, non te lo ricordi?” mi rimprovera scherzosamente Matilde.
“No” rispondo sicura.
“Mah si Maria, il biondino per cui Ottavia moriva.”
“Ah si, e che ci fa con noi?”
“Che ci fai tu con noi!” esclama Luigi divertendo tutti.
Tommaso Lucarelli. Non credo di avere un’opinione sul suo conto, non sapevo neanche il suo cognome o che cosa facesse della sua vita. Sicuramente me lo ricordo bello, ma non so dire se possa essere anche significante.
Arriva alle otto in punto e Ottavia si alza in piedi di scatto, senza neanche volerlo probabilmente. Tutti pensavamo da sempre che il suo culo non riuscisse a stare fermo non appena lui appariva, come un assioma: Ottavia è invasa da una gravità strana per la quale tende ad avvicinarsi ogni volta che lui spunta; involontariamente pare.
Tommaso saluta tutti e quando incontra i miei occhi per la prima volta, la sua ombra dista da me circa cinquantasette sanpietrini. Ciò significa che tra me e la sua reale figura ci sono 20 sanpietrini in più. In totale direi settantasette.
Si avvicina a me, si presenta, non c’era bisogno forse ma lui lo fa ugualmente nel dubbio.

Ceniamo. Ridiamo. Beviamo. Andiamo a dormire.

È mattina e mi sono svegliata per ultima, di nuovo. Perché dormo così tanto?
Sono tutti in piscina, mangio qualcosa e poi mi tuffo anche io.
Ridono e ricordano delle cavolate dette la sera prima da sbronzi. Mi infilo in acqua e avverto Tommaso avvicinarsi a me.
“Buongiorno Maria, bella serata ieri.”
“Si è stato divertente. Oggi però è troppo caldo.”
“Andremo alla deriva tutti qui in piscina.”
Si gira e nuota verso l’altro bordo.
È stato un tentativo di approccio? Si, direi maldestro.

Il giorno passa tranquillo, pranziamo e poi ci addormentiamo tutti sugli sdrai. Qualcuno, Federico credo, propone di andare a fare un salto in città mentre ho ancora gli occhi chiusi ma nessuno lo vuole accompagnare: così finiamo veramente per andare alla deriva in piscina per l’intero giorno.
Noto che Tommaso ogni tanto fissa lo sguardo su di me, in un modo che non mi dà particolarmente fastidio. Non capisco bene cosa stia facendo, credo stia solo cercando un contatto.
Più tardi torna a parlarmi, dice altre due frasi e si stacca di nuovo. Forse ha pensato di venirmi a parlare ogni tre ore per cercare di instaurare un rapporto con me, sempre in crescendo e con una distanza minore di tempo.
Non vorrei che Ottavia notasse qualcosa di strano, anche se in realtà non c’è niente di strano: ma gli occhi vedono sempre quel che vogliono guardare, e Ottavia è un’amica.
È sera, abbiamo finito di cenare, mi alzo da tavola e mi metto in disparte per chiamare un secondo mio padre. Finita la telefonata mi accendo una sigaretta e sento Tommaso avvicinarsi e sedersi di fianco a me.
“Dopo un po’ la folla mi stanca, posso sedermi qui?”
Gli dico di si. Non lo trovo così ingombrante.
“Quando te ne sei andata?”
“Un po’ di anni fa, avevo 24 anni.”
“E poi?”
“E poi? Poi ne ho compiuti 25 credo”.
Sorride. Ha un sorriso dolce. Penso voglia chiedermi il perché io me ne sia andata, ma non lo fa. Mi chiede solo “E adesso come stai?”
Dico che sto bene.
“Pensi si possa superare vedere un genitore che se ne va?”.
Non aveva bisogno di chiedermi il perché, lo sapeva già.
Io non lo conoscevo e lo sapeva già che me ne ero andata dopo che mia mamma ci aveva lasciati sul serio: di sicuro qualcuno lo aveva preparato sull’ospite particolare che avrebbe passato qualche giorno con loro. Glielo avevano detto gli altri anche se io non lo avevo mai confessato a nessuno, neanche a me stessa. Forse solo mia madre lo sapeva. Non capivo se Tommaso me lo stesse chiedendo per impicciarsi e basta, ma si spera che la gente a una certa età smetta di impicciarsi.
Gli ho detto “Non lo so”.
Lui sta zitto. Dopo un po’ aggiunge al suo silenzio “Secondo te, quando si inizia a vivere bene ci si ricorda di quando si viveva male?”
“Non lo so, non credo di aver mai vissuto talmente bene o talmente male. Forse brinderemo solo quel giorno in cui tutti gli altri saranno stati dimenticati”.

Sono a Madrid, sono rientrata a casa. Devo ammettere che tornare in Italia è stata la cosa migliore che potesse capitarmi.
Tommaso, nei giorni successivi in Toscana, non è stato invadente, ha capito. Forse io volevo sentirmelo chiedere perché fossi mai scappata.
Non ero stata capace di dire a mio padre che gli ero vicino, che non doveva aver paura della solitudine. Non ero stata in grado di dire a Cesare che dobbiamo cercare di smetterla di contare, che ci stressa, che non ci rende naturali ma composti.
Ora l’avevo capito, ma non gliel’ho ancora detto. Forse la prossima volta.
È stato strano. Mentre eravamo in campagna delle sere ho sperato che fossimo solo io e Tommaso, ma purtroppo al mondo c’è sempre troppa gente.
È stato strano anche perché tutti gli altri miei amici non mi avevano mai liberato dalle mie paure come Tommaso era stato in grado di fare.
Forse non era proprio insignificante.
Non lo vedo non lo sento non mi sono innamorata ma gli devo qualcosa.
Mi metto a contare quanto tempo è dovuto passare affinché mi alleggerissi da alcune malinconie, per capire quanto tempo mi servirà per dimenticarne altre.
Voglio qualcosa di nuovo, qualcosa di nuovo, qualcosa di nuovo, qualcosa di nuovo, qualcosa di nuovo, qualcosa di nuovo. Lo devo ripetere per sei volte.
No Maria. Mi devo fermare. Non devo.
Dirò ai miei figli che se chiederanno le cose urlando e ripetendole ad alta voce, è più possibile che accadano sul serio. Dirò loro che non devono imparare ad aspettare.
Mentre eravamo in macchina e scappavamo via dalla Toscana il sole trafiggeva il vetro e veniva a colpire il mio braccio sinistro e la mia faccia, ed io ho chiuso gli occhi pensando di essere felice, di essere libera da tutte le scommesse che la gente avrebbe fatto su di me.

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