Povera ma sexy: la Berlino di The Passenger

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Una donna di spalle, con un vestito senza troppi fronzoli e una birra in mano, apre le braccia davanti a un immenso spazio aperto, dominato da prato ma in cui si intravedono anche strisce di asfalto.

È questa la fotografia che i lettori trovano sulla copertina di The Passenger – Berlino, ultimo volume uscito per la felice collana che Iperborea dedica a Paesi e città del mondo. Le mete scelte per questi volumi vengono raccontate attraverso articoli, inchieste, reportage, dati statistici e testimonianze; una molteplicità di voci e generi, quindi, non un racconto unitario, ma che alla fine riesce a trasmettere un efficace ritratto dell’atmosfera e delle contraddizioni della meta prescelta.

La collana non è certo una novità: era il giugno 2018 quando veniva pubblicato il primo testo, dedicato all’Islanda, e da allora la casa editrice ha portato gli “esploratori del mondo” in Olanda, Giappone, Portogallo, Grecia e Norvegia. Ora, per la prima volta, The Passenger si concentra su una città, scegliendo di indagare cosa sia diventata la capitale tedesca a trent’anni esatti dalla caduta del muro. 

Proprio l’elemento della trasformazione e del cambiamento -reali o possibili- rappresenta il filo rosso che tiene uniti i vari pezzi che compongono il volume: come viene ricordato nell’introduzione, Berlino “è e sempre sarà potenziale puro” o, nelle parole di Karl Scheffler, “è condannata per sempre a diventare e mai a essere”. Una città che – in alcuni casi suo malgrado – ha sempre dovuto trasformarsi e adattarsi a repentini cambiamenti ma che, soprattutto a partire dagli anni Novanta, ha fatto dell’avanguardia, della riqualificazione e dell’apertura un motivo di vanto e di fama in tutto il mondo. Come a dire: là dove il passato è stato spazzato via o è troppo doloroso da ricordare, lo sguardo si volge di necessità al futuro. 

Si spiega così anche l’immagine scelta per la copertina – forse un po’ lontana dalle perfette fotografie di viaggio a cui Instagram ci ha abituato, ma in fondo così efficace per trasmettere l’anima della città: il vasto prato interrotto da qualche riga di asfalto non è altro che l’ex aeroporto Tempelhof, chiuso nel 2008 e diventato nel 2010 un parco: “quattro chilometri quadrati di potenziale puro”. Sì, perché a Tempelhof non c’è niente: “non ha alberi, non ha chioschetti […] Non ha sentieri, solo le colossali piste di atterraggio. È il vuoto urbano più grande del mondo”; è solo un immenso spazio vuoto che è però diventato nel corso degli ultimi anni il simbolo della libertà dei giovani berlinesi. Quello che l’immagine ci mostra e che viene più volte sottolineato nelle pagine del volume è che Berlino non è bella – o, almeno, non nel modo in cui lo sono altre capitali europee: a Berlino non è importante il lusso, a vigere sono canoni estetici diversi da quelli accettati altrove (non è un caso se l’articolo firmato da Falko Henning si intitola proprio Dress Code), ma comprendere e sentirsi parte di quest’aria di rinnovamento tutta berlinese, di voglia di fare e di cambiare. È questo a rendere la capitale tedesca “povera ma sexy”. 

Anche per questo Berlino è diventata negli anni una città con un alto tasso di immigrazione: il 20% della popolazione non è originaria della città ma è arrivata da altre zone della Germania o del mondo per nutrirsi e trarre profitto da quest’atmosfera. Tra le numerosissime comunità straniere presenti in città, nel volume di Iperborea vengono dedicate alcune pagine alla comunità vietnamita, senza però dimenticare le altre: quella polacca e quella russa, quella siriana e, ovviamente, quella turca; basti pensare che dei famosi döner, inventati dagli immigrati turchi giunti in Germania, se ne consuma in città ogni anno un numero più che doppio rispetto a dei tedeschissimi currywurst. Tutti coloro che arrivano, prima o poi, finiscono per far propria la celeberrima frase pronunciata da Kennedy nel 1963: “Ich bin ein Berliner”. 

Parlare di Berlino significa però anche fare i conti con il suo recente passato e le ferite ancora visibili – soprattutto se si è in prossimità di un anniversario così importante come quello che si ricorda il 9 novembre 1989. Non stupisce quindi che il primo contributo del volume, firmato da Peter Schneider, sia dedicato a Potsdamer Platz, il “cantiere show” anche considerato il “cantiere più discusso degli anni Novanta”: il luogo dove un tempo fu installato il primo semaforo al mondo e che negli anni Venti veniva considerato la piazza più trafficata d’Europa, tra il 1961 e il 1989 divenne terra di nessuno, abbandonata e svuotata, simbolo della divisione tra Est e Ovest. Oggi, abbattuto il muro (di cui restano comunque delle tracce), Potsdamer Platz è una delle piazze più famose della capitale tedesca, diventata essa stessa parte di quell’ampio progetto di riqualificazione che è possibile vedere e respirare anche altrove e che si è imposto negli anni Novanta a suon di musica elettronica. 

In una monografia dedicata a Berlino non poteva infatti mancare un riferimento anche al suo panorama musicale e underground, sviluppatosi nel corso degli ultimi trent’anni in vecchi scantinati abbandonati che sono poi diventati club celebri in tutto il mondo (Ufo, Tresor, Tacheles ed E-Werk, giusto per citarne alcuni), patria della musica techno e acid house. Al mondo underground della musica elettronica viene dedicato un reportage di Christine Kenshe che ripercorre la storia di uno dei principali esponenti della selvaggia generazione di giovani berlinesi degli anni Noventa: la dj (poi diventata famosa in tutto il mondo) Ellen Allien. 

Berlino non è una città facile: al di là della sua particolarissima e travagliata storia, la città non viene risparmiata dai conflitti e dalle contraddizioni di qualsiasi altra grande metropoli contemporanea. Il merito del volume di Iperborea sta nell’aver cercato – così come negli altri volumi della collana The Passenger – di trasmettere tutta la poliedricità della situazione proprio affidandosi a una diversità non solo di temi e generi, ma anche di voci. Ogni sezione contribuisce a dare al lettore un tassello che, unito agli altri, forma il ritratto di una città che sarebbe forse troppo riduttivo descrivere solo con qualche slogan accattivante, e che ha bisogno di essere letta, vissuta, ascoltata (e ballata). Ne risulta un volume ricco contenutisticamente ma anche piacevolissimo da leggere e sfogliare, capace di attirare il lettore grazie ad aneddoti e curiosità – perché, diciamocelo, quanti di noi avrebbero immaginato che a Berlino ci sono molti più ponti che a Venezia? 

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