L’ora del destino – La libertà di Jane Austen, Mary Shelley e Jeanne d’Arc

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Chi era però il vero mostro, ora che ci pensava? La creatura con la pelle gialla e le labbra sottili e nere, o il creatore che l’aveva fatta così? Godwin l’aveva educata ad essere audace, a disprezzare le convenzioni sociali. (..) Chi erano alla fine i mostri? Lei? Shelley?

È Mary Shelley “sulla spiaggia” che si pone queste domande. Pensa alla sua vita e pensa alla storia del mostro e dello scienziato che ha scritto, nell’anno senza estate: il 1816. Si domanda chi sia il vero mostro, la creatura o il Dr. Frankenstein che l’ha creata così diversa dal mondo in cui l’ha portata? Chi il mostro, lei, amante e madre senza essere moglie, o suo padre, Mr Godwin, che prima le insegna a disprezzare le convenzioni e poi le volta le spalle?

Le riflessioni di Mary Shelley riempiono la seconda sezione de L’ora del destino di Victoria Shorr, edito in Italia da SEM nel 2019. Il libro raccoglie i pensieri di tre grandi donne “at the hour of reckoning”, “al momento in cui si tirano le somme”, come si legge nel titolo originale. Le tre donne sono Jane Austen, Mary Shelley e Giovanna d’Arco, e le incontriamo rispettivamente “a mezzanotte”, “sulla spiaggia” e “in catene”. Incrociamo i loro cammini in momenti topici della loro vita, momenti di svolta, momenti in cui guardano indietro e soppesano tutta la loro esistenza, le scelte forti fatte, i rischi corsi.

“Cosa fa Jane Austen a mezzanotte?”, vi chiederete. E cosa ci fa Mary Shelley sulla spiaggia? Cosa pensa Giovanna D’Arco in catene?
Jane Austen a mezzanotte pensa, nella sua stanza, finché la candela non si consuma. Pensa a come, una sera di molti anni prima, un giovane di buona famiglia le aveva chiesto la mano e lei, il giorno dopo, essendosi resa conto di non amarlo, l’aveva rifiutata. Una follia all’epoca. Una follia che senz’altro ha richiesto non poca determinazione: già una giovane considerata di una certa età, senza denaro o casa propri, dipendente dalla generosità dei fratelli, Jane rinunciò a comfort e stabilità. Senza quella follia sarebbe certamente sfuggita agli sguardi impertinenti nei saloni, non sarebbe stata la zia sempre ospitata dai parenti, seduta al posto più umile della tavola delle cognate, ma non sarebbe forse stata la scrittrice che conosciamo oggi. Scrittrice che riuscì, cosa rarissima all’epoca per una donna, a vivere della sua penna.

Mary Shelley sulla spiaggia invece aspetta. Aspetta Percy Shelley, che dalla sua gita in barca non tornerà, colto da una tempesta al largo delle coste italiane. Aspetta e pensa alla sua vita, a come sia scappata da casa per seguire in giro per l’Europa questo giovane poeta con cui condivideva il disprezzo per le convenzioni dell’epoca. Pensa a come l’abbia seguito senza sposarsi, con anzi la moglie di Shelley rimasta in Inghilterra; pensa al silenzio del padre, più conservatore nei fatti di quanto non lo fosse stato nei testi liberali scritti in gioventù e al dolore vissuto, i figli persi, alla morte sfiorata con l’ultimo parto, alle amanti di Shelley. Pensa però anche all’anno senza estate, in cui scrisse Frankenstein, spinta dalla sfida di Lord Byron, e alle profondità dell’animo umano di cui non avrebbe potuto fare esperienza senza la libertà e il dolore della vita che aveva scelto.

Giovanna d’Arco in catene ricorda. Ricorda la “pulzella” di campagna che era un tempo e  quel giorno in cui si tagliò i capelli e indossò i pantaloni per partire alla volta della corte del re. È appena scampata al rogo, abiurando “le sue sante”, giurando di riprendere gli abiti femminili e di abbandonare le armi. Ha firmato un documento in cui accetta il carcere a vita per eresia, anche se, come si sa, non sarà questo il suo destino. Dentro la sua cella Giovanna D’Arco ricorda come, durante gli interrogatori, il tribunale abbia insistito sulla domanda “perché porti abiti maschili?”, considerata parte della sua eresia. Ricorda anche la leggenda della principessa chiusa nel suo castello, a cui tutto era permesso, tranne entrare in una stanza. Lei però vi era entrata, e aveva avuto una fine terribile. Sua madre aveva raccontato a Giovanna la storia, e aveva commentato che la principessa non avrebbe dovuto farlo. “Invece Giovanna D’Arco era entrata. In tutte le stanze. In quella del re, dei preti”.

Insomma, il libro della Shorr ci permette di avvicinarci all’intimità di tre donne le cui vite hanno sfidato le convenzioni del loro tempo, con coraggio e indipendenza. L’autrice immagina, senza allontanarsi dalle fonti storiche, i pensieri delle tre protagoniste, aprendo al lettore una finestra sul loro carattere tenace, la loro intelligenza e presenza di spirito, come sulle loro sofferenze e il loro dolore. Del resto, è interessante notare come Jane Austen, Mary Shelley e Giovanna D’Arco non siano le sole donne notevoli che il volume evoca. Pensate solo a Mary Wollstonecraft, madre di Mary Shelley, filosofa e autrice di A Vindication of the Rights of Woman, che rivendicò il diritto all’indipendenza e all’istruzione per le donne, e visse ripudiando le convenzioni del suo tempo. Pensate anche all’interessante scelta della copertina dell’edizione italiana di SEM: The Daydream, dipinto di Rossetti che ritrae Jane Morris, che sfidò le tradizioni sociali che la volevano governante, come le giovani donne di famiglia modesta, e divenne invece una delle muse dei preraffaelliti, oltre che donna di grande cultura.

L’ora del destino permette di accostarci a delle donne straordinarie, ma anche di riflettere sul sacrificio e il coraggio che le loro scelte di vita implicarono all’epoca in cui vissero. Del resto, come scrisse Virginia Woolf: “anything may happen when womanhood has ceased to be a protected occupation”.

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