L’alea, la distanza e il senso di compiutezza. Intervista a Laura Pugno

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mantieni l’arco, tieni

tutto come se non dovesse

scoccare, non ancora

In questi tre versi c’è tanto di Laura Pugno e della sua nuova raccolta poetica L’alea, pubblicata a settembre 2019 per Giulio Perrone Editore. C’è un imperativo, la forma verbale più usata dall’autrice abituata ad una lingua pragmatica e performativa. C’è un gesto, il tendere l’arco che è qui immagine venatoria e metafora di un rito quotidiano. C’è l’attesa, l’invito a fermarsi e a guardare con attenzione: la coscienza piena del momento. Laura Pugno ha scritto romanzi, testi teatrali e saggi, ma è la poesia la forma con cui ha esordito come scrittrice e a cui affida i temi che le sono più cari. Ed è dai suoi versi che iniziamo a parlare, per muoverci nelle pagine di un percorso ampio e dai tanti volti:

-"L’alea" è il tuo ultimo libro di poesie, un nuovo passo nella tua produzione letteraria con un importante pezzo del passato. Come siamo arrivati a "L’alea"?

Il libro è nato da una richiesta dall’editore Giulio Perrone e dalla volontà, in un primo momento, di rieditare un altro poemetto per me molto importante uscito sempre per la sua casa editrice nel 2010: La mente paesaggio. L’iniziativa mi ha trovato entusiasta e nel dialogo con l’editore è presto uscito il desiderio comune di aggiungere nuovi testi alle vecchie poesie, per fare un libro nuovo e non solo una ristampa. A quel punto mi sono interrogata io su cosa avessi di inedito o di non del tutto edito -il pubblicato adesso è una zona grigia, tra l’online e il resto- e che potesse avere senso abbinare a La mente paesaggio. Ho ripreso questo poemetto, L’alea, che aveva avuto una circolazione solo in ebook, per Feltrinelli nell’ambito di Zoom, e che raccoglieva una selezione delle mie poesie a cominciare dagli esordi, dal 1991, fino al 2016. Era il periodo in cui si pensava che l’ebook risolvesse i problemi legati alla distribuzione dei testi in poesia, cosa che non è avvenuta: ora sappiamo che è rimasto tutto sommato uno strumento complementare e mi è dunque sembrato giusto dare a L’alea anche una versione su carta.

-Cos’è "La mente paesaggio" nella tua storia di scrittrice?

E’ per me un libro importantissimo sia per la mia storia personale che per la mia storia poetica. Riguardo alla mia poesia è un libro che in qualche misura ha creato un prima e un dopo. Penso a Bianco, che ho scritto cinque anni dopo ed è uscito per nottetempo: è un libro che prende le proprie mosse da dove La mente paesaggio si era interrotto. Dal punto di vista personale inoltre è un libro del lutto e segna un attraversamento della linea d’ombra che in qualche modo poi è importante non solo a livello mio di biografia. Questo tipo di esperienza è evidente non solo in poesia ma anche in prosa, nel libro se vuoi “gemello” della raccolta poetica che è Antartide (Minimum fax, 2011): quello che ritengo essere il mio libro più personale. Non è tuttavia la vicenda narrata a essere autobiografica, faccio riferimento al contesto e allo spazio mentale con cui è stato scritto il libro.

parola e cosa nello stesso

essere andate, dopo,

non prima o dopo

 

che modifica il prima, lo

diviene

 

in una o l’altra scelta

o l’una o l’altra insieme

-Il poemetto ha avuto anche una sua diffusione in Spagna prima di venire riproposto adesso ne "L’alea" e hai deciso di rimettere mano al testo nella nuova pubblicazione. Cosa è cambiato dal 2010 negli anni?

La mente paesaggio ha avuto si un’incarnazione spagnola con la pubblicazione in edizione bilingue sotto il titolo Nácar (“madreperla”, come il titolo della prima sezione). Ho vissuto così anche l’esperienza dell’autotraduzione, che è alla fine una riscrittura in spagnolo: quando traduci te stesso hai una libertà che altrimenti non avresti. E’ stato molto naturale per me, visto il profondo legame con la Spagna e la sua lingua: ho lavorato prima come addetto per Ministero degli Affari Esteri e ora a Madrid dirigo l’Istituto italiano di cultura. In questa esperienza di attraversamento del testo a distanza di alcuni anni ho sentito che il libro aveva acquistato un diverso finale: riprendendo il lavoro tempo dopo è normale che qualcosa cambi, ma allo stesso tempo sappiamo di essere di fronte a dei testi fissati nella loro storicità, e nella loro umanità. Ho infatti solo modificato l’ordine in cui le poesie comparivano. L’ultima è Lo specchio, che termina con “tu-isola/ coperta di bosco”; mentre nell’edizione 2010 la raccolta terminava con “e tu lingua puoi perderti/ qui e non / altrove.” Nel momento in cui sono andata a rimettere mano al testo per il nuovo libro ho ripreso l’edizione spagnola e ho notato come questa chiusa sia più circolare. Potevo farci caso solo a distanza di tempo e l’ho trovata più adatta.

-E arriviamo così a "L’alea".

E’ un poemetto che io scherzosamente definisco “quantistico”: tanto quanto La mente paesaggio era un libro sulla memoria, l’identità, la perdita e la scomparsa L’alea è invece un testo che affronta il mondo, che colloca chi scrive in un sistema che si è in qualche modo trasformato nella nostra percezione diffusa rispetto a quello che era anche solo pochi decenni fa. Senza banalizzare un lungo e complesso discorso scientifico, basta qui dire che ci rendiamo perfettamente conto di avere davanti un mondo che non è contrassegnato dalla nostra separatezza, ma dalla nostra unione che noi -va ammesso- non siamo assolutamente addestrati a percepire. E la poesia è uno dei modi in cui questa coincidenza ci si apre, quanto meno a intermittenza. Mi sembrava che nell’accostamento de La mente paesaggio e L’alea non ci fosse solo una sovrapposizione ma che si abbracciasse un significato più ampio e concreto di quel percorso già delineato con lo spostamento degli ultimi versi nell’edizione spagnola. Quella che era la vicenda privata di una vita non cessa di essere tale, però si va a situare all’interno di un dialogo con il mondo, che è più ampio.

-A proposito del tornare sui temi, pensiamo anche alla tua prosa: è il caso di "Sirene", il tuo romanzo d’esordio pubblicato nel 2007 con Einaudi e ristampato recentemente per Marsilio.

Quando ho riletto Sirene l’ho fatto con un certo interesse, come se leggessi un esordiente. Se da una parte riconosco che l’autrice del libro sono assolutamente io allo stesso modo sento di essere davanti a qualcuno che è profondamente distante da me. Si dice che il narratore e l’IO narrante dentro di noi è e allo stesso tempo non è la persona che siamo nella vita quotidiana: questo è più sottile nell’autofiction e nei romanzi, però io tutte le volte che rileggo Sirene misuro tutta la sua completezza. Lo vedo come un libro d’esordio, dell’inizio in qualche modo, e questo ne fa un oggetto interessante. Ho sentito dopo la nuova pubblicazione quest’anno molte attenzioni anche da lettori giovani: come un libro che ha acquistato maggiore attualità dal 2007 per i temi trattati. Non ho modificato quasi nulla comunque, più che altro ho fatto un’approfondita correzione di bozze, proprio perché non ci si bagna due volte nello stesso fiume -detto eracliteo che vale anche per i romanzi. Nel 2007 è uscito anche il mio libro di poesia Il colore oro per Le Lettere, che è il corrispettivo di Sirene, e in cui adesso vedo la stessa qualità: quella di essere in qualche misura un libro, un momento e un oggetto dell’inizio. Possiamo vederne l’età tormentata solo quando ci si distanzia da essi. Hanno la caratteristica di essere fortemente terzi, non solo rispetto a quanto si scriveva allora ma anche in relazione a quanto si è scritto dopo. La loro singolarità a distanza di anni mi pare essere rimasta in campo.

nel tascapane, o la borsa

che ti cade

sul fianco per il corpo, hai

di che passare?

-Restando sulla lontananza, quando scrivi hai bisogno di mettere distanza tra te e i sentimenti di cui parli?

In scrittura tutto è possibile, secondo la “democrazia delle poetiche”. Anche perché uno scrittore non sceglie, o meglio: la scelta avviene ad una tale profondità che poi la scrittura che si riesce a praticare è quella. Senza dubbio su un piano psicologico gli strumenti di distanziamento che la prosa offre aiutano molto: ad esempio io scrivo in terza persona. L’unico romanzo in cui l’IO narrante è in prima persona è La caccia (Ponte alle Grazie, 2012) vista la natura del libro: è incentrato sulla telepatia dove si alternano due persone in una sorta di staffetta. Ma è molto importante anche considerare il carattere dello scrittore, e credo che in generale una certa distanza interiore sia necessaria per padroneggiare la materia, affinché l’opera acquisti quella compiutezza di cui parlavamo prima. Nel momento in cui la materia non è sufficientemente raffreddata nel testo te ne accorgi, a seconda della tenuta e della capacità dell’autore. Io posso parlare di Laura Pugno scrittrice e solo oggi mi sento di dirti che La mente paesaggio è un libro del lutto, dopo anni che l’ho scritto. Non l’ho mai descritto in questi termini quando è uscito: ne ho parlato per l’identità, per il soggetto e per la capacità di percepirsi. Ma il testo è il testo ed è questo che rimane; l’idea che lo scritto sia legato indissolubilmente ad un autore è una percezione molto contemporanea: prendi la letteratura antica o medievale dove ci sono ancora molti problemi di attribuzione, l’effetto di immediatezza di un testo è un qualcosa che possiamo sentire noi e basta.

i pezzi, le parti ricongiunte

aspettano

-Nel 2018 hai anche pubblicato un saggio, "In territorio selvaggio", dove l’editore ti ha affidato una parola chiedendoti di situarla rispetto a te come scrittrice e alla tua poetica: è stato un lavoro di scrittura completamente diverso dal solito.

E’ stata un’esperienza nuova, era il primo saggio che scrivevo e paradossalmente è il mio libro più esposto perché mi sono ritrovata a parlare di quella che è la mia lettura del mio testo. Quando scrivi un libro sei consapevole che quando lo porti in giro per il mondo in qualche modo tutta una serie di modi d’essere del tuo lavoro si svelano e diventano più presenti, grazie al lettore, al critico e al traduttore. Sono filtri interessantissimi, con il portato di credenze e tradizioni della loro epoca, con le loro capacità di cogliere o meno certi indizi nel testo: sono come delle lenti che lasciano passare determinate immagini rispetto ad altre. In qualche misura il libro si completa, proprio perché nel tempo resta l’opera.

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