Marocco: la terra rossa

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Bastano poco meno di 3 ore d’aereo per trovarsi in un altro mondo. Marrakech e Merzouga sono stati i confini del mio viaggio: la città e il deserto, la baraonda e il silenzio. Il Marocco è una continua unione di opposti e non ci ha messo molto per rapirmi. Al-Maghreb al-Aqsa, la terra più lontana dove tramonta il sole, custodisce sia lo splendore arabeggiante sia lo spirito del Continente Nero di cui è la porta più vicina e affascinante.

Marrakech, la grande città rossa, è travolgente.
Il mio viaggio inizia con un breve scambio di parole con il tassista, un tratto durato una manciata di minuti dall’aeroporto alla città; già respiro l’ospitalità del posto. Conversazione rigorosamente in italiano perché qui sono più poliglotti dei laureati in Lingue: bisogna prestare attenzione a ciò che si dice, sanno parlare più di quattro idiomi e molto probabilmente conoscono anche il tuo, modi di dire compresi. Sono proprio le parole, i saluti e i racconti ad animare le prime ore tra le strade di Marrakech: il rumore della città non aspetta che mi sia ambientata, mi getta nella sua quotidianità come se fossi sempre stata lì.
Appoggiati i piedi sulla strada marocchina, i miei occhi sono avvolti dalla luce e dal colore: il sole, alto e incontrastato, regna sulle infinite case rosse ed ocra. Mi trovo nella parte antica della città, la medina, dove i riad, le tipiche abitazioni marocchine, si disseminano disordinatamente lungo le strade strette e tortuose. Camminando tra le intricate vie, prima di entrare nel mercato, si notano le porte ampie ed imponenti -di legno scuro o di colori e decorazioni vivaci. Ma tra le spoglie mura color del sole si nascondono bellezze inaspettate: ogni riad è infatti un prezioso scrigno che cela al suo interno un’oasi, un cortile, una fontana, degli alberi. Come piccole rappresentazioni del Marocco, territorio estremo e d’estremi, di rosso e di verde, arido e sorprendente.
Pochi passi, trasportata dagli odori inebrianti e dal frastuono, e sono nel pieno del souq. La confusione è la regola e l’unicità: non è possibile muoversi senza esser invitato a fare un tour alla “Festa dei Colori” o al Mercato del Ferro o al ristorante più buono di tutta la medina. Si cammina tra distese infinite di merci d’ogni genere, perdendosi tra il fascino delle lampade arcobaleno, il profumo acre del puro cuoio e il tintinnare dei monili. I negozi sono spesso laboratori, case, luoghi di ritrovo e, inoltrandosi nei vicoli, ci si può imbattere in un fabbro mentre fonde il ferro o in un calzolaio che modella pelle colorata.
Illuso chi crede di uscire dalla medina senza aver speso qualche dirham e senza aver discusso con qualche commerciante. D’altronde Marrakech nasce come meta di mercanti e gli abitanti hanno nel sangue l’arte del convincere, del contrattare ed è un’offesa grave non ribattere alla prima- spesso assurda- offerta di vendita.

La strada si allarga, l’odore del cibo si fa più penetrante, il baccano si intensifica: sono a Jamaa el Fna, il cuore pulsante della città. È una piazza circolare che ti fagocita appena entri: si vende qualsiasi cosa immaginabile e non, dai tatuaggi all’henné agli animali. Le fini orecchie dei mercanti capiscono subito la mia lingua e iniziano i saluti, i complimenti e i richiami in italiano. È una passeggiata che si rivela ben presto un percorso ad ostacoli: tra inviti di cartomanti e incantatori di serpenti tento di attraversare la folla scansando le più insolite offerte di insistenti venditori. Il modo migliore per godersi il particolare spettacolo è osservare la fiumana umana da uno dei ristoranti sui tetti, mentre le luci della sera avanzano e il rumore lentamente si affievolisce. Ed è in quel frangente, al calar del sole, che tutto improvvisamente s’arresta: al richiamo serale del Muezzin segue la sospensione fulminea d’ogni attività, è uno dei cinque momenti quotidiani in cui la preghiera non può essere rimandata.

L’indomani si dedica alla storia e, superati valorosamente souq e piazza centrale, si arriva a El Badi, detto “L’incomparabile”. Il palazzo, costruito nel XVI sec. dal sultano Ahmed al-Mansour e invidiato in tutto il mondo, è un rifugio sospeso dalla città, maestoso ed essenziale. Il tempo si fonde con lo spazio e la perfezione geometrica delle piscine e dei giardini rende il ritmo lento e placido. Dall’alto cicogne bianconere, furtive sentinelle, sorvegliano i turisti nella scoperta di quel che resta delle grandi stanze e dei labirintici corridoi.
La giornata scorre e, dopo un gustoso Couscous e un aromatico piatto di Tajine, lo stufato di carne in umido cotto su brace, la sera scende nuovamente. La città segue il corso del sole: di giorno brilla, di notte dorme. Lasciando la piazza che a poco a poco si spegne e ripercorrendo le stesse strade della mattina verso il riad dove dormirò, mi stupisco della quiete, delle porte chiuse e dei colori scomparsi. Sono nella stessa città? Il velo della notte è sceso e non possiamo opporci, bisogna riposare.

Nell’esplorare il Marocco l’autentica sorpresa è una costante così come lo è il paradosso: lontano dal caos cittadino, si estende intoccabile l’armonia del silente deserto. Ed è là che, con la luce del nuovo giorno e incastrata tra i sedili di un pullman, mi dirigo anch’io. Oltrepassata l’anarchica Marrakech la terra diventa aspra e rimangono solo i secchi arbusti, ma quasi all’improvviso grigi e imponenti monti di roccia calcarea ci circondano: sono le Atlas, la catena montuosa che attraversa il Nord Africa. Inoltrandosi tra le pareti rocciose, tornante dopo tornante, il grigio si fa bronzo: arrivano i Canyons, macchiati di verde, le oasi. Ma il paesaggio non si arresta e di nuovo cambia: rincominciano le distese di terra bruciata e i panorami desertici fino ad un’altra oasi alle pendici di un colle su cui sorge una città. È Aït-Ben-Haddou, città dai profili epici che è stata teatro di svariati film, come Lawrence d’Arabia, la Mummia e il Gladiatore, senza dimenticare la recente comparsa in GoT nelle vesti di Yunkai. Nello ksar, il villaggio fortificato, il tempo si è fermato e continua, per me è surreale: siamo catapultati in un remoto passato e, camminando tra i mille colori degli abiti svolazzanti e tra le case di mattoni crudi, si incontrano gli abitanti d’oggi. Sono giovani tessitrici e anziani pastori che ancora animano la città.
Delle morbide dune neanche l’ombra, il viaggio è ancora molto lungo. Le interminabili ore si susseguono faticosamente tra la pesante aria senza nuvole e le lande desolate, finché l’arida steppa inizia a macchiarsi di rosso. Colline di sabbia fanno capolino sul confine tra cielo e terra. Sono a Merzouga, la porta per l’Erg Chebbi, il deserto sabbioso.

Al di là delle mura della città ragazzi dalle vesti e dai turbanti sgargianti ci aspettano, saranno le nostre guide nella traversata dell’Erg.
Pochi oggetti essenziali, due litri d’acqua e si sale sul proprio cammello, chen realtà è un dromedario. Dall’alto della nave del deserto, in carovana, intravedo le prime dune. La già aridissima vegetazione scompare e la sabbia muta, tutto si tinge di rosso. Eccoli, li vedo: sinuosi orizzonti di sabbia si stagliano nel cielo limpido. Si avanza lenti tra le onde bagnate di luce, lasciandosi alle spalle la cittadina e immergendosi nel deserto. Siamo soli nel nulla, guidati da un giovane berbero che ci porterà alle tende allestite per la notte. Il ragazzo avanza a piedi scalzi sulla sabbia rovente e conosce perfettamente il cammino così come conosce i suoi cammelli. Sulla via non incontriamo nessuno e niente se non qualche scarabeo e le leggere impronte della volpe del deserto: pochi eletti possono sopravvivere qui. L’accampamento berbero non offre alcun comfort: il bagno è uno per tutti e le tende hanno giusto la dimensione del letto, o meglio, dello spesso e duro materasso appoggiato sulla sabbia. Sono piccoli dettagli che rendono più speciale l’esperienza. Rapidamente cala il sole, e arriva la notte. È magia.
La cena si prende nella tenda più grande, attorno ad un unico tavolo. Si condivide il pane, la carne speziata e la verdura; si parla e ci si conosce. C’è chi è australiano, chi è greco e vive a Londra, chi è americano e non sopporta gli americani e chi è berbero ed è nomade da sempre.  Il freddo aumenta e così il buio diventa sempre più nero, ma la luce non muore, sopravvive, si trasforma. Al centro dell’accampamento qualcuno sta accendendo un fuoco e le prime fiamme, nitide, emergono. È un richiamo e la gente si avvicina. Gli Imazighen, gli uomini liberi, hanno portato con sé tamburi, chitarre e flauti: si aprono le danze. Il silenzio è spezzato dal ritmo fervido dei canti che si insinua sotto la pelle cancellando ogni imbarazzo e scatenando balli intorno alle fiamme. Il sonante battere delle mani, la sabbia fredda sotto i piedi nudi e le risa incontrollate plasmano l’atmosfera, tanto da sfiorare il tribale. Lascio la festa prima che si spenga per ricordarmela solo così, viva e trascinante. In realtà c’è altro che mi aspetta, un spettacolo speciale a cui voglio assistere. Alzo lo sguardo ed è indescrivibile, vedo frammenti di luce nel manto nero: è il cielo del deserto. Si intravedono a fatica le creste delle dune accarezzate dalla lieve brezza notturna. Mi distendo, affondo le mani nella sabbia soffice e i miei occhi si perdono nel firmamento. Il pensiero si interrompe, non mi interessa elencare i nomi delle costellazioni o elaborare qualche pensiero esistenzialista sull’essere quasi nulla nell’immenso tutto. Semplicemente sono, vivo la mia esperienza senza filtri, abbandonando anche me stessa.

I giorni sono trascorsi vividi, indimenticabili, colmi di bellezza in ogni sua forma. Dalla minuziosa arte decorativa araba al selvaggio ritmo berbero il Marrocco mi ha fatto sognare e mi ha sopraffatto.

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