Il culto dei crani

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“I successivi ritrovamenti furono ancor più suggestivi. Nella zona centrale del lato occidentale del bastione […], durante la stagione 1953, per qualche tempo era stata visibile una porzione di testa umana nella parete laterale dello scavo. […] Il cranio restò dove si trovava fino al termine dello scavo. Tuttavia il cranio di un individuo vissuto forse settemila anni or sono costituisce un caso piuttosto singolare, quindi dopo aver finito di disegnare la sezione della stratificazione, una mattina, benché a malincuore, diedi al sovrintendente il permesso di cavar fuori l’oggetto in questione, poi tornai al mio lavoro. Nel corso della giornata, lo stesso sovrintendente mi si presentò con un misterioso rapporto, in cui si dichiarava che il cranio sembrava essere ricoperto di uno strato d’argilla. Gli raccomandammo di procedere con la maggior cautela possibile, ma nessuno di noi avrebbe mai immaginato quello che alla fine venne scoperto. Soltanto la fotografia può giustificare il nostro sbalordimento. Nella parete del fosso noi avevamo visto solo la parte superiore del cranio; la parte inferiore aveva un rivestimento di intonaco, plasmata, secondo i lineamenti del viso, e nelle orbite erano stati inseriti due gusci di conchiglia.”
Così Katlheen Kenyon, direttrice degli scavi archeologici a Gerico tra il 1952 e il 1956, descrive la singolare scoperta del primo di sette crani intonacati, in una casa di quella che è stata a lungo definita “la città più antica del mondo”. Nel prosieguo del racconto l’archeologa narra le difficoltà del recupero di questi strani oggetti, ritrovati proprio in fase di chiusura della stagione di scavo del 1953: una tale scoperta costrinse tutta l’equipe a sconvolgere completamente i propri orari e programmi per fotografare, ricostruire e mettere in sicurezza i reperti. Kenyon e collaboratori per quasi una settimana vissero molto a disagio, seduti sul pavimento e nutrendosi di panini – condizione comunque abituale per qualsiasi archeologo odierno.

 Il primo cranio rimodellato trovato a Gerico nel 1953

Ma in cosa consistette esattamente il ritrovamento? Si tratta di sette crani umani, quasi tutti privi di mandibola, la cui parte anteriore è stata ricoperta di intonaco di calce, modellato a ricostruire un volto, in alcuni casi con quello che potremmo definire “realismo”. Le orbite sono riempite di creta, che serve a fissare i due occhi formati da due frammenti di guscio di conchiglia, oppure, in un caso, da gusci interi. Alcuni esemplari inoltre recano tracce, più o meno evidenti, di pittura. Il significato e la funzione di questi reperti, al momento del rinvenimento, erano un enigma.
Nel corso della campagna del 1956 ci furono altri due importanti ritrovamenti che contribuirono a fare luce sul mistero: si rinvennero altri due crani, allo stesso livello dei primi; ma soprattutto si scavarono, al di sotto del pavimento della casa più antica – quella in cui erano conservati i crani – circa trenta scheletri, molti dei quali privi di testa. Le analisi antropologiche dimostrarono che gli scheletri presentavano segni di manomissione: le teste erano state asportate in una fase abbastanza avanzata della decomposizione, in cui però i legamenti erano ancora in parte presenti. Molte delle mandibole erano state lasciate al loro posto.
Insomma, ecco quanto era accaduto: gli abitanti di una casa di Gerico avevano seppellito i propri morti sotto il pavimento – pratica abituale per l’epoca – e dopo qualche mese avevano prelevato i crani di alcuni di loro, ne avevano rimodellato i volti con intonaco e conchiglie e li avevano tenuti in casa per qualche scopo.
Con il progredire delle ricerche altri crani rimodellati sono stati ritrovati in diverse località del Levante – l’area corrispondente grossomodo alle attuali Palestina, Cisgiordania, Israele, Libano e Siria: a Beisamoun, Kfar Ha Horesh, Aïn Ghazal ecc. L’avanzamento degli studi ha anche portato a una più precisa datazione dei reperti, grazie al carbonio 14 calibrato: se Katleen Kenyon negli anni ’50 ipotizzava che i crani di Gerico potessero risalire a 7000 anni fa, oggi vengono invece datati tra l’8000 e il 7500 a.C. circa, ben 10000 anni fa, all’interno del periodo che gli archeologi chiamano Neolitico preceramico B, in inglese Pre-Pottery Neolithic B (PPNB).

                 Altri due crani rimodellati trovati a Gerico

Ma per quale motivo i neolitici conservavano i crani dei propri morti? A quale uso erano adibiti? Qual è il significato del “culto dei crani”? L’interpretazione non è facile e le ipotesi formulate sono tante.
Tralasciando le più fantasiose, come il cannibalismo, si è pensato a crani di nemici uccisi, conservati come trofeo di guerra: questa tesi è stata tenuta in considerazione per Gerico, perché i 30 corpi sepolti sotto il pavimento della casa sembravano il risultato di un eccidio, forse una battaglia. Ma in altri contesti i numeri non sono così alti, eppure il rituale della rimozione del cranio viene riscontrato con regolarità.
Sembra quindi più probabile che ci troviamo davanti a una particolare forma di culto degli antenati, forse divinizzati, le cui teste venivano venerate come pars pro toto. Dobbiamo allora fare qualche osservazione. In primo luogo, non tutti i morti perdevano la testa. Ne consegue che c’era una selezione, solo alcuni potevano pretendere la dignità di antenati. Non ci sono chiari però i criteri della selezione: i crani prelevati potevano essere maschili, ma anche femminili, di adulti o anche di infanti.
Ci chiediamo poi che tipo di culti fossero quelli in cui questi oggetti erano coinvolti: i crani sono stati ritrovati all’interno di case, dove potevano essere posti su supporti di argilla oppure conservati in gruppo in appositi ripostigli, come a Gerico; ma deposizioni di crani, anche se non rimodellati, si sono rinvenute anche all’interno di strutture con funzioni specifiche, come la “casa dei morti” a Çayönü, nel sud est dell’Anatolia, grande edificio a pianta rettangolare con abside, probabilmente un santuario, che nascondeva sotto il pavimento ben 70 crani umani. Culti privati domestici, magari permanenti e culti collettivi, che coinvolgevano la comunità nel suo insieme in determinate occasioni, sembrano insomma entrambi presenti. Tanto più che i crani non sono l’unico tipo di “oggettistica rituale” del periodo: si ritrovano statuette antropomorfe, maschili e femminili, e zoomorfe; teste umane in osso o terracotta; statue di calce (il primo esempio di vera e propria statuaria nella storia dell’uomo) e anche maschere di pietra.
Le caratteristiche precise di queste ritualità ci sfuggono ancora. Ma forse possiamo azzardarci a delle interpretazioni di questi sistemi simbolici così lontani nel tempo, consapevoli di entrare nel regno delle ipotesi difficilmente verificabili.
Cerchiamo allora prima di tutto di capire dove ci troviamo. Abbiamo parlato di PPNB, Neolitico preceramico. Siamo in un momento essenziale della storia, quello in cui, nel Vicino Oriente, si compie forse la più grande rivoluzione di cui l’umanità sia mai stata protagonista: la rivoluzione neolitica. A partire dal 12.000 a.C. l’uomo, che per almeno 200.000 anni aveva vissuto di caccia e raccolta, inizia un processo che lo porterà, da una sostanziale passività nei confronti dell’ambiente in cui vive, a dominarlo e plasmarlo secondo le sue esigenze. I passaggi fondamentali sono quattro: nel Natufiano (12.500-10.000 a.C. ca) l’uomo, da nomade qual era, comincia a costruire insediamenti stabili; nel PPNA, la prima fase del Neolitico preceramico, intorno al 9000 a.C, nasce l’agricoltura; nel PPNB (8700-7000 a.C. ca), il periodo dei crani di Gerico, nasce l’allevamento; dopo il 7000 a.C, ultimo e forse relativamente meno importante tassello, viene introdotta la ceramica.

I principali siti del PPNB antico e medio nel Levante e Anatolia meridionale (8700 – 7500 a.C.)

In molti si sono chiesti quale sia stata la scintilla che, dopo centinaia di migliaia di anni, ha fatto scattare un cambiamento così radicale, seppur graduale, dei modi di vita. Jaques Cauvin parla di “Rivoluzione dei simboli”: nella mente del Sapiens, già da millenni potenzialmente pronto, da un punto di vista tecnico, al cambiamento, qualcosa si è sbloccato. L’uomo ha modificato il suo modo di vedere il mondo e di vedere se stesso all’interno del mondo: quello che era qualcosa di intoccabile diventa un ambito in cui si può agire, che si può modificare. L’uomo si sente ora parte del mondo in cui vive e dà un valore sempre più importante alla propria specie, che si va aggregando in società sempre più coese. Cauvin vede la prova di questo cambiamento spirituale nella comparsa, precedente – e questo è significativo – a quella dell’agricoltura, di un grande numero di statuine antropomorfe, prima femminili, rappresentanti la cosiddetta Dea Madre, signora della vita e della fertilità, e poi anche maschili, oltre che zoomorfe: si va quindi configurando un sistema simbolico religioso, che avrà lunghissima durata, che ruota intorno a un principio femminile e a uno maschile, un dio Toro.
Ed è proprio questa antropomorfizzazione dell’immaginario simbolico-religioso, questo culto che l’umanità inizia a tributare alla propria specie, che avrebbe portato, intensificandosi tra PPNA e PPNB, a manifestazioni come il “culto dei crani”: l’antenato non è più semplicemente seppellito, come lo era da millenni; il suo ricordo non cade nell’oblio, ma la sua presenza viene periodicamente riattualizzata, attraverso la collocazione del suo cranio nella casa, che è il luogo della vita.
Giunti alla fine, resta da fare una precisazione importante: queste teorie non possono fare a meno di affascinarci, ma non dobbiamo dimenticare che rimangono interpretazioni, situate nell’ambito del possibile o del verosimile: solo il progredire delle ricerche archeologiche e i nuovi dati che forniranno potranno avvalorarle, smentirle o perfezionarle. L’archeologo, o chiunque si occupi di ricostruire la storia, dovrebbe sempre specificare il grado di certezza delle informazioni che, sulla base delle sue ricerche, trasmette al pubblico: è un aspetto fondamentale dell’etica della disciplina, che altrimenti rischia di ricadere verso facili derive fantastoriche. In ogni caso, però, il velo di incertezza che avvolge gli aspetti di cui abbiamo parlato rimane essenziale nel mantenere vivo l’interesse per un momento così straordinario del cammino dell’umanità: un momento in cui abbiamo fatto il passo decisivo verso ciò che siamo oggi.

Un pensiero su “Il culto dei crani

  1. Argomenti come quello del mio articolo si prestano a facili derive fantarcheologiche e fantastoriche: in rete (e non solo) si trova di tutto. Mi sembra dunque buona norma allegare la bibliografia di riferimento, in cui è possibile verificare le informazioni che ho riportato:

    – CAUVIN J. 1994, Nascita delle divinità e nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel neolitico, Jaca Book, Milano.
    – KENYON K. 1959, La città più antica del mondo. Gli scavi di Gerico, Massimo, Milano.
    – STROUHAL E. 1973, Five plastered skulls form Pre-pottery Neolithic B Jericho: anthropological study, in Paléorient, vol. 1, n. 2. pp. 231-247.

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